Nel 1978, il politologo spagnolo Juan Linz (assieme all’inseparabile Alfred Stepan) curava “The Breakdown of Democratic Regimes” (“La caduta dei regimi democratici”, lo dico in inglese perchè una traduzione integrale in italiano non esiste…), ricco contributo (4 volumi!) che analizzava nel dettaglio il perchè e il percome un sistema democratico può – ad un certo punto – fare “patatrack” e trasformarsi in una dittatura.
Venti anni dopo, sull’onda della ri-democratizzazione dell’Europa e del Sudamerica, Linz e Stepan si occupavano di spiegare in 2 volumi i vari “Problems of Democratic Transition and Consolidation“, dei quali stavolta esiste anche la traduzione italiana, edita da “Il Mulino”. E finalmente – dopo venti anni – potevamo sapere perchè cadevano anche le dittature, il che ci aiuta a capire un po’ meglio quanto sta accadendo in queste ore in Birmania e ipotizzare degli sbocchi, se non probabili almeno possibili.
Andando molto in soldoni, non esiste “un” regime dittatoriale, ma ne esistono molti, sintetizzabili in due grandi modelli di riferimento: i regimi totalitari e i regimi autoritari. E si tratta di due modelli molto diversi, anche se a un occhio non allenato potrebbe sembrare che il secondo è solo la variante “buona” del primo…Ma se ci si riflette le differenze sono facilmente comprensibili:
- Regime Totalitario: sistema fortemente pervasivo, caratterizzato da un leader carismatico al potere, supportato da un potente e strutturato partito unico e con una totale assenza di qualsiasi forma di pluralismo. Vi è una costante mobilitazione ideologica che invade e influenza non solo la vita politica, ma ogni singolo momento dell’esistenza di ognuno, sia essa dal punto di vista sociale, culturale od economico. Il potere non conosce limiti formali o informali e viene mantenuto grazie ad un continuo ricorso alla violenza politica ed al terrore, che diventano usuali strumenti di governo.
- Regime Autoritario: sistema non ideologico ma con “mentalità caratteristica”, espressa da un costante ricorso ad un prevedibile armamentario retorico (Dio, Patria, Famiglia, Onore, Gloria, Nazione, Popolo…) privo di una ideologia strutturata e onnicomprensiva. Talvolta esiste un partito unico ma il pluralismo (economico, culturale e sociale) non scompare del tutto (così – ad esempio – in Italia durante il Fascismo rimasero tendenzialmente autonomi i poteri industriali, la Chiesa Cattolica, la Monarchia e, in misura minore, l’Esercito). Spesso il popolo non viene mobilitato, ma al contrario scoraggiato dal prendere parte alla vita politica anche se solo come comprimario plaudente. Il leader (o il gruppo) al potere governano in modo arbitrario e talvolta violento, ma senza la legittimazione ideologica e propagandistica che rende così efficace la tirannia nei sistemi totalitari, ragion per cui la violenza di massa – quando c’è – compare il più delle volte nelle fasi di instaurazione e di crisi del regime.
Il regime totalitario è un caso raro e di breve durata. Non vi sono dubbi che fosse totalitario il regime nazista (dopo il 1937) e il regime staliniano più maturo (dopo il 1936). Totalitario fu il regime di Kim Il Sung in Corea del Nord e – opinione personale – vi furono fasi totalitarie nel regime maoista durante gli anni della “Rivoluzione Culturale”. Talvolta si sono individuati germi totalitari nei regimi islamici di massa, come quello Iraniano e quello Afghano-talebano e – se sostituiamo la propaganda con la predica, il partito unico con la capillare presenza di moschee e madrasse e l’ideologia con la religione, il gioco è fatto.
I regimi autoritari invece sono più diffusi e sfaccettati, si va dai bonari “regimi tradizionali” (le monarchie del Marocco o della Giordania) ai regimi “sultanistici” (quelli nei quali esiste una con-fusione tra stato e famiglia del dittatore, come in diversi regimi africani, asiatici o sudamericani), dai regimi di “mobilitazione ideologica” (Cuba) a quelli “Bonapartisti” (Putin). La Birmania – invece – mi pare rientri nella casistica dei regimi “Pretoriani”, vale a dire quelli a guida militare.
Nel suo “The Man on Horseback” (“L’uomo a cavallo”) del 1962, Samuel Finer notava che di regola i militari hanno il monopolio legittimo della forza, sono gerarchicamente strutturati, culturalmente e socialmente coesi, capillarmente presenti su tutto il territorio di un paese e quindi, la domanda da fare non è “perchè talvolta prendono il potere?”, bensì “perchè non lo prendono sempre?”, considerati tutti i vantaggi “di casta” e di “posizione” che ricoprono. Le risposte sono diverse e articolate e prenderebbero troppo spazio ma – mettendo assieme Linz, Stepan, Finer e qualcun’altro – la domanda a cui rispondere è: come e quando se ne vanno?
- Via d’uscita numero 1: l’Autunno del Patriarca. Il vecchio dittatore decide che dopo di lui sarà il diluvio e prende in considerazione l’ipotesi di una uscita blanda e negoziata dal regime autoritario, mercanteggiando impunità e privilegi per se, il suo entourage e talvolta la sua casta. Così è stato – ad esempio – in Spagna e in Cile;
- Via d’uscita numero 2: Waterloo. Il regime è in crisi di legittimità e di consensi, la situazione politica interna va sempre peggio e quindi, nulla di meglio di una bella guerra per consolidare il fronte interno. Ma le strutture sono marce, tutto va storto, la guerra finisce male e con essa il regime. Come in Argentina dopo il disastro delle Falkland ma anche – per certi aspetti – caso italiano durante il Fascismo;
- Via d’uscita numero 3: il contagio. Come nel domino, cade una dittatura e cade pure quella vicina…si tratta di quanto accaduto in Est-Europa nel 1989, dove i diversi sistemi comunisti sono crollati per cedimento strutturale (Germania Est), golpe interno (Bulgaria) o moto violento (Romania);
- Via d’uscita numero 4: le pressioni esterne. Talvolta un regime è così odioso o violento che crolla perchè la comunità internazionale lo mette alle strette, con le buone (Sudafrica nel 1990) o con le cattive (Iraq nel 2003);
- Via d’uscita numero 5: scontro tra elite. All’interno del gruppo dominante si apre uno scontro tra “falchi” (sostenitori della repressione) e “colombe” (sostenitori di una apertura negoziale con i gruppi moderati dell’opposizione). Se prevalgono i primi (Tien-An-Men 1989), il regime spara sulla folla, ma se è compatto resta in piedi. Se prevalgono i secondi, si aprono le possibilità per una transizione più o meno indolore (che spesso prevede l’eliminazione del vecchio dittatore) a una qualche forma embrionale di democrazia (una “democradura” o una “dictablanda” per usare il lessico sudamericano);
- Via d’uscita numero 6: il bagno di sangue. Può esplodere un moto rivoluzionario al quale il regime reagisce con la forza ma alla lunga i ribelli prevalgono e rovesciano la dittatura. Spesso per instaurarne un’altra di colore opposto (Cuba, Nicaragua).
E in Birmania? a me pare che la prima tentazione del regime (a metà tra il sultanistico e il pretoriano) sia stata quella di reagire con violenza, ma sembra che vi sia all’interno una tensione tra elementi moderati ed elementi estremistici, contrari ad ogni ammorbidimento. Saremmo quindi nel caso numero 5. Al momento, pare che l’Esercito (in linea di massima) ubbidisca quando gli viene ordinato di sparare, ma domani?
Considerato il crescente interesse della comunità internazionale, l’attenzione del sistema dei media e l’evidente crisi del regime (crisi di legittimità, di prestigio, di consenso e di capacità di relazione) dovendo ipotizzare uno sbocco direi che la dittatura birmana ha i giorni contati. Ma che la sua uscita di scena non sarà per nulla indolore, anzi.
Insomma, la dittatura sembra finita, ma le sofferenze per i birmani temo proprio di no.