Se vado indietro, tanto indietro con la memoria, la prima crisi di governo che ricordo è quella risoltasi tra la fine di febbraio e il principio di marzo del 1978. La ricordo non perchè a 11 anni fossi un attento osservatore della politica ma perchè, molto più semplicemente, l’evento che sbloccò i contrasti tra i partiti fu esterno al Palazzo: il rapimento del presidente della DC Aldo Moro.
Non si è mai capito se le B.R. scelsero il giorno del rapimento a caso. Fatto sta che il giorno in cui decisero di passare all’azione coincideva con la presentazione alle Camere del governo Andreotti III, il primo con l’appoggio (esterno ma politico) del PCI. In realtà, il PCI pare fosse orientato a votare contro perchè nel formare il governo (monocolore democristiano con alcuni giovani tecnici di area, tra i quali spiccava un rubizzo Romano Prodi, neoministro dell’Industria) la DC era andata troppo sul pesante…ma il sangue in strada era troppo e non parve a nessuno il caso di spaccare il capello in quattro per pesare il curriculum di questo o quel sottosegretario.
Nel corso della storia della Repubblica di crisi drammatiche, incomprensibili o bizzarre se ne sono viste parecchie…Nel 1960 – contro il parere del proprio partito, la DC – dal Quirinale, Giovanni Gronchi (estimatore di De Gaulle) decise di dare vita a un governo del Presidente, incaricando il ministro Tambroni di scovarsi i voti in Parlamento, in qualche modo. Li trovò nei fascisti del MSI e venne fuori l’iradiddio…moti di piazza, cariche di carabinieri a cavallo come ai tempi di Bava Beccaris, deputati feriti, dimostranti morti. E Tambroni costretto a dimettersi, isolato come un appestato, mori in solitudine, un paio d’anni dopo, appena sessantenne.
Ma di trovate sinistre negli anni ’60 se ne videro altre…come la crisi di governo del 1964, frutto di un contrasto tra DC e PSI (allora alleati riottosi nel primo centrosinistra, quello vero). Il contrasto – pare, sembra, si mormora – venne risolto dal presidente della Repubblica Segni minacciando velatamente un “colpetto” se i socialisti avessero tirato troppo la corda. La paura del “colpetto”, il “tintinnar di sciabole” dietro alle tende in broccato rosso del Quirinale (l’immagine è dell’allora vicepresidente del Consiglio Pietro Nenni) indusse il PSI a cedere e riconfermare la fiducia al governo Moro su una base molto moderata rispetto alle speranze ed alle richieste.
Particolarmente fantasioso fu il presidente Pertini, che nel 1979 ruppe l’egemonia democristiana su Palazzo Chigi, incaricando prima Ugo La Malfa (che fallì) e poi Bettino Craxi (che fallì pure lui). Finalmente il goal riuscì nel 1981, con la nomina di Giovannone Spadolini, dopo che il governo Forlani era stato rovesciato dallo scandalo delle trame eversive della loggia P2 (della quale un illustre adepto si prepara a tornare a Palazzo Chigi…). La crisi del 1979 fu – anch’essa – segnata dalla tragedia: lo sforzo compiuto da Ugo La Malfa per formare un governo fu talmente intenso e sfibrante che, pochi giorno dopo il fallimento del tentativo, il Grande Repubblicano morì improvvisamente per emorragia cerebrale.
Analoga, triste sorte colpì il presidente del Senato Tommaso Morlino, che nel 1983 fu incaricato di un mandato esplorativo con il fine di evitare lo scioglimento delle Camere e condurre in porto le riforme più urgenti nell’interesse del Paese (questa non mi torna nuova…). Tira molla, tira molla, tira molla…forse ci siamo, si apre uno spiraglio. Invece no, il PSI voleva a tutti costi le elezioni nella convinzione di stravincerle (non le stravinse) e quindi tirò il bidone a Morlino quando questi stava già stilando la lista dei ministri. Fu troppo, andò al Quirinale a rinunciare e due giorni dopo morì per un infarto.
Il colmo del surreale fu la crisi del 1987. Anche allora tra i piedi c’era un referendum da evitare (quello sul nucleare) e uno sfilacciamento tra i partiti che rendeva impossibile trovare una maggioranza per il governo, ma anche una maggioranza per le elezioni. Dal Quirinale Cossiga le provò tutte, ma alla fine dovette accettare la soluzione più scontata: mandato esplorativo al presidente del Senato Amintore Fanfani, che formò un governo per andare alle elezioni, tutto di democristiani doc, nella certezza di non avere la fiducia e gestire le elezioni. Invece, per ragioni che qui sarebbe lungo ripercorrere, a Montecitorio ci fu un colpo di scena: socialisti e radicali si dissero disposti a votare la fiducia per salvare la consultazione referendaria, mentre la DC – che voleva andare a elezioni – si trovò costretta a votare contro un governo che più democristiano non si poteva, unico modo per andare al voto. Voto che premiò entrambi i litiganti, DC e PSI, rendendo ingovernabile la legislatura che seguì.
La crisi del 1987 va ricordata anche per un’altra vicenda: l’incarico esplorativo a Nilde Iotti, unica donna (e unico esponente del PCI) che mai abbia avuto un mandato. La Iotti condusse le proprie esplorazioni con l’abituale charme e con l’abituale rispetto per le istituzioni, cercando – come da indicazione quirinalizia – di riallacciare i legami tra DC e PSI. Attività che condusse in modo attento ed efficace, ma che le valse parecchie critiche dentro il suo partito – il PCI – perchè nell’esercitare la propria esplorazione la Iotti era un po’ troppo presidente della Camera e un po’ troppo poco militante comunista fedele alla linea di partito, linea che era “il governo è finito e non si rialzerà più”.
Ebbi modo di vedere Nilde Iotti nel 1998, quando – un anno prima di morire – giunse a Udine come rappresentante nazionale al congresso del PDS regionale. A quel congresso parlai pure io, facendo un intervento stupido e ingenuo solo per il gusto di andare al palco e farmi autografare la cartellina dalla presidente Iotti. Ho ancora quella cartelletta di cartone gialla con sopra il simbolo del partito…la sua firma è come deve essere la firma di una anziana professoressa di Lettere: chiara, ampia, elegante e con un po’ di svolazzi.
Dopo il congresso la vidi nell’atrio. Era sola, trascurata dai maggiorenti del partito intenti a farsi la guerra per gli incarichi interni. Aveva la borsa in mano e oscillava un po’ sulle caviglie gonfie, strette nelle scarpe di vernice nera. Volevo avvicinarmi per salutarla ancora, dirle che la mia tesi di laurea aveva avuto per oggetto l’operato della “Commissione Iotti” e chiederle due cose: che cosa viene detto durante le consultazioni di governo e come fu passare il capodanno del 1953 assieme a Stalin.
Ma mi manco il coraggio di cogliere l’attimo e un istante dopo lei non c’era già più.