L’idea lanciata qualche giorno fa dal premier, che ipotizzava casi nei quali il diritto di voto in Parlamento potrebbe essere riconosciuto ai soli capigruppo è meno bizzarra e autoritaria di quanto si potrebbe pensare.
Certo, come quasi sempre ha sbagliato tempi e modi, ma il principio di fondo – semplificare l’attività parlamentare smantellandone alcuni degli aspetti più ridondanti – è in linea con quanto sarebbe utile fare per iniziare a mettere mano ad alcuni dei principali ostacoli che rendono poco produttivo il nostro sistema parlamentare. Elenchiamone i principali:
1. Bulimia legislativa. Il nostro Parlamento legifera troppo e su tutto, anche su questioni di microlivello (che poi sono quelle che portano un minimo di visibilità ai deputati di base). E’ veramente necessario che “la tutela della qualità dell’olio vergine ed extravergine di oliva” (PdL 1281), oppure che le “norme relative alla professione del consulente filosofico e relativo albo” (PdL 1288) siano oggetto di dibattito in commissione e poi in aula, con votazione articolo per articolo e vengano inviate in seconda lettura all’altra Camera per il medesimo esame e quindi firmate dal presidente della Repubblica? E questo senza voler parlare della “istituzione di una casa da gioco nel comune di Fasano” (PdL 2035) o di “norme per la tutela delle scelte alimentari vegetariana e vegana” (PdL 1467);
2. Il trittico perverso. Per scansare i massi sul proprio cammino, i governi (tutti!) sono ricorsi continuamente a una prepotente tripletta procedurale: decreto legge (inventandosi la “necessità” e “urgenza” richieste dalla nostra puntigliosa Costituzione), maxiemendamento sul decreto legge per riassumere tutto quello che si vuole far figurare nel testo (e così, abbiamo avuto articoli con migliaia di commi, con buona pace della leggibilità e applicabilità pratica dei testi di legge) e fiducia sul maxiemendamento. Alla fine il provvedimento passa, tutti giurano che “questa sarà l’ultima volta”, salvo poi – al Consiglio dei Ministri successivo – approvare una nuova raffica di Decreti Legge, che verranno votati previa fiducia su maxiemendamento.
3. Lavorare stanca. In Parlamento, chi lavora lo fa per due, talvolta per tre. E’ il caso dei “pianisti”, vale a dire quei parlamentari che riescono a votare contemporaneamente per se e per il proprio compagno di banco che oggi aveva altro da fare e non si è visto. Prassi deleteria ovviamente, ma prassi che ha una sua logica: orari impossibili (sedute-fiume, convocazioni notturne, pasti saltati…), noia mortale (tutta la mattina per parlare del prosciutto di Sauris o di un accordo commerciale tra Italia e Turkhmenistan), senso di inutilità e di impotenza. Per dirla come un “backbencher” di cui non ricordo il nome: “fatica senza lavoro, ozio senza riposo”.
4. A che serve il Parlamento? In una democrazia liberale fondata sulla separazione dei poteri, il Parlamento dovrebbe servire a due cose: dare un indirizzo politico-legislativo al governo e controllarne l’operato. Oggi non fa ne uno, ne l’altro. Non da indirizzi politici perchè i parlamentari sono troppi (circa 1000), non eletti ma nominati, privi di collegamento e rapporto con il territorio e presi singolarmente del tutto ininfluenti. E non fa controllo politico perchè la regola del “premio di maggioranza” e delle coalizioni separate da un muro non consentono il libero sviluppo di posizioni individuali e di un senso di appartenenza istituzionale capace di soppiantare quello partitico.
5. Irrimediabile? assolutamente no. Si può uscire dal tunnel dell’inefficienza in vari modi. Innazitutto c’è un modo “light“: la riforma dei regolamenti parlamentari, che preveda tempi certi per le proposte legislative del governo, un aumento del lavoro delle commissioni in “sede deliberante”, modalità garantiste per le opposizioni (su modello Westminster) e una ridefinizione delle procedure legate alla Legge Finanziaria, valorizzando il momento dell’indirizzo politico (Dpef, discusso di solito verso giugno-luglio) e snellendo la fase di adozione del testo, contingentando tempi e ammissibilità degli emendamenti.
Poi c’è l’ipotesi “hard“: la riforma del bicameralismo, vale a dire trovare il modo di rompere la regola della “doppia lettura” tra Camera e Senato e magari passare per una drastica riduzione dei parlamentari e una maggiore separazione tra legislativo ed esecutivo. Ma su questo, entriamo nel mondo di Alice nel paese del Buongoverno.
Nel 1963 – a soli 15 anni dalle prime elezioni politiche per Camera e Senato – è uscito un libro curato da Giovanni Sartori: si intitola “Il Parlamento Italiano: 1946-1963“. Sosteneva le stesse cose che ho scritto io oggi, con dovizia di dati e arguzia dottrinale.
Sono passati 46 anni e non è cambiato praticamente nulla. Le nostre Istituzioni sono – beate loro – eternamente giovani. E giovanilmente sventate.