L’attuale legge elettorale è stata definita dal suo stesso autore – il ministro Calderoli – come “una porcata”. Si tratta di una definizione totalmente errata, dato che del maiale – notoriamente – non si getta nulla, mentre di quella legge sarebbe da buttar via tutto.
Tanto per rinfrescarci la memoria, ricordiamone gli aspetti più deleteri:
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indicazione di un candidato premier all’atto del deposito delle liste, in sospetta contraddittorietà con l’art. 92 della Costituzione, che attribuisce al Capo dello Stato il potere di nomina del presidente del Consiglio;
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previsione di un premio di maggioranza alla coalizione più votata, da attribuirsi attraverso un farraginoso e assurdo meccanismo di sbarramenti che non sbarrano (6 diverse soglie, tra Camera e Senato!);
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previsione di 17 diversi premi di maggioranza al Senato, dove non è stato possibile per ragioni di natura costituzionale prevedere un premio unico, cumulativo;
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presenza di liste bloccate e assenza per l’elettore della facoltà di selezionare con il proprio voto il candidato che più gli aggrada;
I referendum, mirano a modificare alcune delle storture della legge, ma a parer mio senza riuscirvi e anzi – se possibile – addirittura peggiorando l’attuale normativa in alcuni punti. Infatti, i tre quesiti proposti dall’ineffabile duo Guzzetta & Segni non intervengono nei due aspetti in assoluto più criticabili: l’indicazione formale del candidato premier (il “Capo della Coalizione”, secondo il pessimo lessico della legge) e le liste bloccate. Mantengono cioè una impostazione di democrazia meramente “elettorale” di tipo bonapartista, assai lontana da una visione aperta dei processi politici e istituzionali. Anzi, con la previsione del premio di maggioranza ad una sola forza politica riescono addirittura ad enfatizzarla, senza intervenire per garantire e ampliare i necessari contrappesi politici e istituzionali.
E quindi la domanda diventa: che fare? Votare SI, votare NO o non votare affatto? E dall’azzardo di risposta si capisce come questa legge elettorale sia effettivamente tutta da buttare: infatti, non esiste un’opzione “vincente”, ma ci sono solamente diversi gradi di sconfitta, perché qualsiasi sarà l’esito finale, i problemi rimarranno ancora tutti sul tappeto, tali e quali, quando non addirittura aggravati.
L’ipotesi più probabile è che vinca il non voto. Il che verrebbe venduto come l’implicito consenso del corpo elettorale al mantenimento del sistema vigente. Che – come si diceva – è pessimo. Molto remota è l’ipotesi di una vittoria dei “NO”, dato che non si capisce per quale ragione i contrari ai quesiti referendari debbano scomodarsi ad uscire di casa quando per ottenere il risultato da loro sperato possono tranquillamente rimanere in poltrona in attesa che il referendum venga dichiarato nullo per mancato raggiungimento del quorum previsto
Rimane la scelta del “SI” (che sarà il mio voto, per il poco che può interessare). Presenta alti, altissimi rischi. Tra tutti quello di creare un sistema che potrebbe consegnare ad un partito di poco superiore ad 1/3 dei consensi (37.4 il PdL e 33.2 il PD, secondo i dati delle politiche 2008) circa il 55% dei seggi alla Camera, con un “jackpot” di quasi il 20%. E questo 55% (340 deputati) continuerebbe ad essere non votato dai cittadini, ma nominato dal capopartito vincente (chiunque esso sia), non di rado privilegiando il solo requisito della fedeltà personale a scapito della rappresentatività democratica, culturale, economica e territoriale che pure un parlamentare dovrebbe incarnare.
Il rischio è quindi alto, ma forse vale la pena correrlo. Infatti, se vince il SI potrebbe aprirsi un piccolo, piccolissimo spiraglio per rimettere in piedi il tavolo della riforma elettorale e si potrebbe riparlare di quel modello tra il tedesco e lo spagnolo sul quale si era intrapreso un dibattito prima del tracollo del governo Prodi. Sarebbe quello che serve per un buon passo avanti che ci avvicini alla fine del tunnel dell’infinita transizione politica e costituzionale italiana.