Dopo le regionali, tutti (tutti, non “quasi” tutti) hanno dei problemi da risolvere. Proviamo un elenco…
1. Berlusconi. In Piemonte ha vinto grazie alla Lega, nel Lazio e in Calabria grazie ai candidati del leader della minoranza interna, Gianfranco Fini e in Campania schierando il capo di un minipartito, dopo aver dovuto ritirare la candidatura di Cosentino, sottosegretario in odore di Camorra. Invece, dove si sono presentati candidati “berlusconiani doc” (Palese, Biasotti) le cose sono andate male. Inoltre il partito ha subito un tracollo elettorale soprattutto al nord e rischia – nei fatti – di diventare una sorta di “Lega Sud”, cosa che renderà praticamente impossibile affrontare sul serio il tema del federalismo fiscale. Insomma, lo sfarzo è solo apparente e dietro l’abbaglio degli ori si nascondono contraddizioni molto serie, tutte da affrontare. Sempre che si voglia provare a governare veramente il Paese, cosa che da Berlusconi non è facile attendersi…
2. Bersani. Non giriamoci tanto attorno facendo gli illusionisti con i numeri. Per il PD queste regionali sono state un disastro. Dal 2008 a oggi si sono perse non solo le elezioni politiche, ma oltre la metà delle Regioni in precedenza fortunosamente conquistate, al nord come al sud. L’elenco è impressionante: Friuli Venezia Giulia, Abruzzo, Molise, Sardegna, Campania, Piemonte, Lazio, Calabria. I voti continuano a calare (ormai siamo passati da un elettore su tre del 2008 a uno su quattro del 2010) e la rissosità interna non accenna a diminuire. Insomma, un partito bloccato, privo di prospettive, con una leadership vecchia e stanca che il poco che poteva dare l’ha certo già dato, ma non intende farsi da parte.
3. Bossi. Il grande imperatore bizantino Giovanni Zimisce, nel X secolo, giunse fino alle porte di Gerusalemme, ma decise di non conquistare anche quella complicata città, preferendo fermarsi per consolidare quanto già acquisito, in base al principio che – come ebbe a dire – “ci sono casi in cui crescere significa diminuire”. E’ il dilemma di Bossi: la Lega al 14% in Emilia e al 7% in Toscana e nelle Marche non è più un partito meramente territoriale, ma un partito seminazionale. Se la penetrazione dovesse proseguire, allora quello di Bossi diventerebbe a tutti gli effetti un grande partito nazionale (roba del 15%) e questo porterebbe in dote tutte le contraddizioni dei partiti nazionali, prima tra tutte quella del divario sociopolitico, culturale ed economico tra nord e sud. E non si può più – credibilmente – parlare di “Padania” una volta superati gli Appennini. Saprà fermarsi il capo dei Barbari?
4. Fini. Il presidente della Camera non sopporta Berlusconi, non ne può più di fare il vassallo e non ha mai creduto nel PDL. Ma ora? dopo un risultato che premia il governo oltre ogni aspettativa, potrà ancora condurre la sua strategia di logoramento e critica? ci sono ancora margini per un nuovo partito di “destra moderna”? O si confermerà ancora una volta quanto sostenuto più volte da Montanelli, convinto che in Italia un vero partito di destra non possa esistere, ma ci sia solo spazio per preti, circensi e manganelli?
5. Casini. La strategia dei due forni è stata un fallimento. Non è un caso se il Cary Grant della politica italiana tace da domenica, quindi è al bivio… se continua a non scegliere fa la figura dell’avvenente e corteggiata signorina rimasta zitella, mentre se sceglie la destra rischia di scomparire nel magma berlusconiano e se sceglie la sinistra, tutto è un’incognita. Ah, povero Pier…
6. Di Pietro. I grillini e De Magistris confermano che chi di forca ferisce, di forca perisce… il rischio di essere superati in giustizialismo (qualunque cosa sia) esiste, mentre alcune strategie adottate (come la solitudine calabra) non è ancora chiaro a cosa siano servite.
Insomma, tutto è scuro sotto il Sole apparente e freddo dell’ennesimo, implausibile trionfo berlusconiano…