Ho visto un classico, un grande classico di Frank Capra, il regista italo-americano autore tra gli altri di “Accadde una notte” (1934) e “La vita è meravigliosa” (1946) ma soprattutto di “Arsenico e vecchi merletti” (1944), uno dei miei film preferiti.
Il grande classico è “Mr. Smith va a Washington“, opera politico-morale del grande regista americano. Ne avevo sentito parlare spesso, ma non è facile incappare in televisione in film degli anni ’30 (quello di cui parliamo è del 1939) e confesso che in fondo non mi attendevo un granché, nella convinzione di imbattermi in una cartolina agrodolce sulle meraviglie dell’American Way of Life, simpatica, piacevole ma anche fragilina e in fondo in fondo la trama lo faceva anche presumere…
Il film si apre con la notizia della morte di un senatore e il governatore dello stato del quale il senatore era espressione, si trova nella necessità di nominare un sostituto (non sono previste le elezioni suppletive, nel sistema americano). Su consiglio del secondo senatore dello stato, il senatore Paine, viene eletto un esponente della “società civile”, tal Jefferson Smith, giovane capo scout, idealista, ingenuo ai confini con la stupidità (“dome un bon frût”, si direbbe in friulano…), innamorato dei fondamenti della Democrazia Americana e in particolare dell’opera di Abraham Lincoln.
Il giovane Smith (il più comune dei cognomi) si trova quindi proiettato sul palcoscenico parlamentare americano e si imbatte nel marcio, nella corruzione e nei compromessi che dominano la vita politica a Washington, lottando come un leone per riuscire a fermare il progetto di costruzione di una diga in una zona naturalistica del suo stato.
Lasciamo perdere il fatto che ci riesce (è pur sempre un film americano) e che ne nasce anche una storia d’amore strappalacrime e soffermiamoci sulla sostanza di un film molto più complesso di quanto non appaia…
E’ un grande film didattico: spiega i meccanismi di nomina senatoriale, illustra il funzionamento dei dibattiti in Senato, descrive in modo minuzioso l’iter legislativo, tanto che se uno studente impara a memoria i consigli che la signorina Saunders (segretaria al Senato) da allo spiantato Smith, diciamo che forse un 24-25 lo porta a casa. E’ quindi un film girato quando si pensava che uno degli scopi dell’arte fosse anche quello di elevare il livello culturale della popolazione.
Ma quello che mi ha colpito è l’analisi spietata della politica americana dell’era Roosevelt: corruzione diffusa, i politici sottoposti ai poteri forti dell’economia, lo scontro tra ambientalismo e opere pubbliche, la stampa superficiale e inaffidabile, la campagna di fango ordita contro Smith che mira a scuotere dalle fondamenta questo sistema, il potere del denaro che prevale sempre e comunque (come nella “Regional City” descritta da Floyd Hunter nl 1953) e i senatori che si mettono a leggere e chiacchierare quando Smith cita la Costituzione o la Dichiarazione d’Indipendenza, nella più palese indifferenza.
Il film fu contestatissimo. Capra fu accusato di antiamericanismo per la sua descrizione dei meccanismi politici interni al sistema parlamentare americano e – facendo leva sulla sua origine italiana – vi fu chi lasciò intendere che forse il film serviva a fornire argomenti polemici al fascismo e all’Asse, nemici politici delle “plutodemocrazie” governate dal denaro, dalla massoneria e dalla lobby ebraica.
Eppure osservandolo oggi che vediamo: cinismo, corruzione, arrivismo, conflitti di interessi, disprezzo per i bisogni del popolo, manipolazione nell’informazione. Non è proprio “una vita meravigliosa” quella che ci racconta Capra. E soprattutto, quello che valeva nel 1939 vale ancora di più oggi, nel 2012 sia negli USA che in Italia.
E noi non abbiamo nessun Jefferson Smith che venga a salvarci…