Dunque Pierluigi Bersani – come ampiamente prevedibile e previsto – ha vinto le primarie del centrosinistra, grosso modo con il risultato che da lui ci si attendeva: sopra il 60 ma sotto il 65%. Possiamo per un po’ spegnere i riflettori accesi da due mesi sul centrosinistra e girarci un po’ dall’altra parte, per cercare di capire cosa si muove nel corpaccione moderato.
Che cosa sappiamo? Sappiamo che i sondaggi del PdL sono tutti, univocamente negativi. Sappiamo che dentro quel partito c’è una crisi di leadership. Sappiamo che il padre-padrone del centrodestra non sa che pesci pigliare e tutti questi fattori assieme generano confusione. Leggiamoli uno per uno…
1. I sondaggi. E’ dalla metà del 2010 che – mese dopo mese – davanti al simbolo del PdL viene posto il segno meno. E a forza di emorragie il partito che fu vicino al 40% dei consensi appena 3 anni fa, veleggia oggi tra il 15 e il 20. Cioè – nelle letture più ottimistiche – si è dimezzato. Nella storia elettorale italiana un simile crollo si ricorda solo nei mesi del disfacimento della I Repubblica, quando il PSI letteralmente scomparve e la DC passò in due anni dal 30% dei voti all’11 (con PPI) per poi scendere a 6-7 subito dopo. Potrà invertire le sorti e risalire? questo mi pare difficile, molto molto difficile.
2. Crisi di leadership. Il PdL è nato all’improvviso. Nel 2007, quando Berlusconi era spalle al muro e in evidente difficoltà politica, avendo mancato l’obiettivo di far cadere il governo Prodi sulla finanziaria, dopo una manifestazione di suoi sostenitori, si arrampicò sul predellino della sua auto e incitando le folle disse che avrebbe dato vita a un nuovo partito con chi ci stava. Gianfranco Fini rise, disse che erano le comiche finali, poi si accodò… E il centrodestra vinse le politiche pochi mesi dopo.
Il problema di quel partito, però, era che nasceva in modo improvvisato, in modo caotico. Nulla di comparabile con i tormenti, le sofferenze e le speranze che hanno portato a fondere assieme Ds e Margherita in quello che oggi è il PD. Nessun confronto politico, nessuna discussione programmatica… I colonnelli di Forza Italia e Alleanza Nazionale scoprirono sfogliando i giornali del giorno dopo che i loro partiti erano stati sciolti e che potevano entrare nel nuovo condominio, oppure dormire in strada. E questo problema non venne risolto neppure in seguito: nel marzo del 2009 il PdL fece il primo e ultimo congresso e fu una farsa, come raccontai in questo post. Poi d’improvviso, pochi mesi dopo, l’inizio della fine… la scissione di Fini, il caso Ruby, la crisi economica, il tormentone dei deputati comprati e venduti, l’addio a Palazzo Chigi…
Per un po’ il PdL ha cercato di trasformarsi in un partito normale. Il suo segretario Angelino Alfano (nominato, non eletto) si è sforzato di disegnare un percorso almeno apparentemente legal-razionale, fino a spingersi alla convocazione di elezioni primarie per la scelta della leadership con tanto di regole e procedure di raccolta firme. Ma tutto è vano, perché sono ancora tutti lì, in attesa, aggrappati alla decisione ultima e irrevocabile del Principe che, come Napoleone nella Mosca in fiamme, non sa decidersi se dar vita alla ritirata o trincerarsi in attesa che passi l’inverno.
3. Il Leader. Chi scrive ha più volte sostenuto pubblicamente che non ci sarebbero state primarie del PdL e che Berlusconi avrebbe fatto il candidato premier anche nel 2013. Non era una profezia difficile, in fondo… Molti osservatori sostengono che questo serva a Berlusconi per poter contare su una pattuglia di fedelissimi capace di fare catenaccio quando il nuovo parlamento dovrà mettere mano a temi che lo toccano da vicino, come la televisione o la giustizia. Certo, c’è del vero, il politico dei troppi soldi, troppi interessi e troppi processi ha ancora bisogno di una forte lobby sulla quale contare, ma non c’è solo questo.
La seconda chiave di lettura dei comportamenti berlusconiani – dopo quella degli interessi personali – è più psicologica. Berlusconi non riesce a concepire un centrodestra che non abbia in lui il motore, il Sole immobile attorno al quale tutti ruotano come pianeti o satelliti. Non è un leader normale che perde e si fa da parte, come fecero la Thatcher, Blair, Aznar, Zapatero, Jospin, McCain e potrei continuare. Lui non può fare veri passi indietro perché in realtà non si percepisce come un leader democratico sulla scia di quelli che ho citato. Lui si percepisce – all’opposto – come il protagonista di una saga epica. Come l’eroe che da vita a un mondo e che con quel mondo vivrà in simbiosi fino alla fine dei tempi… Avrebbe potuto candidarsi alle primarie del suo partito e certamente vincerle, magari anche con largo margine e forse un bagno di folla gli avrebbe fatto pure bene. Ma per lui la sola idea di chiedere consenso a quella gente che considera come “sua” gli avrebbe provocato una ripulsa. E se anche si fosse deciso e avesse vinto non 60-40 come Bersani, ma 90 a 10 si sarebbe tormentato per quel 10 che non sta con lui… Un 10% di infiltrati comunisti, di giudici malevoli, di finiani travestiti, di professionisti della politica…
Perché a Berlusconi non basta vincere. Vuole stravincere. Vuole essere amato. Non vuole discussioni.
E così, la Grande Armata che solo un paio d’anni fa appariva come indistruttibile, si trova ora assediata nella città in fiamme, ridotta nei ranghi, comandata da marescialli pavidi e incerti e guidata da un generale che ha perso il tocco di un tempo, che non riesce più a vedere lontano e – soprattutto – senza nessuno che abbia il coraggio di dirgli la verità.
Certo, Silvio Berlusconi non è certo Napoleone. E soprattutto tra i suoi liberti non esiste un Cailancourt con il fegato di dirgli in faccia le cose che non vanno, sapendo di prendersi una sfuriata, un colpo di frustino sulla spalla, ma anche di venire ascoltato e seguito…