21/01/2013 – Tra tutte le foto della storia americana recente questa è certo una delle più drammatiche. E’ il 22 novembre 1963, il presidente Kennedy è stato assassinato da poche ore e il suo corpo giace in una cassa di alluminio dentro la stiva dell’Air Force One a bordo del quale presta giuramento il nuovo presidente, Lyndon Barnes Johnson, circondato da donne. La Bibbia la tiene tra le mani una giudice di provincia, rimediata all’ultimo minuto, mentre alla destra del nuovo presidente, in bianco, c’è Lady Bird, la moglie di Johnson e alla sua sinistra, lo sguardo perso nel vuoto, ancora attonità, c’è l’ex first lady, Jacqueline Bouvier Kennedy, ancora con addosso il vestito rosa sporco del sangue del presidente.
Mi è tornata in mente questa scena perché in queste ore vi è la concomitanza di due avvenimenti tra loro molto diversi: il giuramento del presidente Obama e il 40° anniversario della morte di Lyndon Johnson, al quale mi va di dedicare qualche riga…
Johnson non è stato un presidente facile da giudicare e infatti gli storici sono divisi, molto divisi. Vi è chi vede in lui il politico senza scrupoli, capace di ogni cosa pur di raggiungere il proprio obiettivo e chi invece riconosce l’intelligenza politica e la tenacia dell’uomo che sa dove vuole andare e – soprattutto – che sa dove portare il Paese che governa. Vi è chi vede in Johnson il presidente un po’ paranoico che favorì l’escalation militare nel Vietnam e chi preferisce accendere i riflettori sulle grandi conquiste nel campo dei diritti civili e del welfare state.
In realtà, molto semplicemente, penso che Johnson fosse effettivamente tutto questo. Quando divenne vicepresidente degli Stati Uniti (1960), era già da alcuni anni il leader della maggioranza democratica al Senato e questo lo rendeva l’arbitro del processo legislativo statunitense, grazie anche al suo inarrivabile talento negoziale. Fu per questa ragione, oltre che per la necessità di ottenere i voti del sud, che John Kennedy lo volle vicepresidente anche se – nel corso del mandato – Johnson (intelligente ma poco raffinato e culturalmente non sempre all’altezza) venne progressivamente emarginato, in favore del pool di cattedratici spocchiosi e liberalchic che JFK si portò alla Casa Bianca.
Quando venne assassinato Kennedy (da Oswald? dai Cubani? dalla Mafia? dal KKK? da Johnson stesso? da tutti questi?… vallo a sapere!), grazie agli automatismi istituzionali Johnson divenne immediatamente presidente per l’anno rimanente prima delle elezioni e – inizialmente – non toccò nulla, confermando tutti i ministri del predecessore (compreso l’odiato Bobby Kennedy) e non nominando neppure un nuovo vice, cercando di dare la sensazione dell’umile uomo del Sud alle prese con l’ingombrante eredità di un gigante come il presidente assassinato.
Nel 1964 l’andazzo cambiò. Johnson venne rieletto con una delle vittorie più travolgenti della storia elettorale americana, superando il 60% dei voti popolari e ottenendo 486 grandi elettori su 538. La rielezione venne ottenuta non solo sull’onda del trauma emotivo della morte di Kennedy, ma anche grazie alla capacità innata di Johnson di sfruttare le debolezze dell’avversario – in questo caso Barry Goldwater, rappresentante dell’ala più a destra del partito Repubblicano – per fini elettorali. La vicenda del celebre spot della “Daisy Girl” ne fu un esempio. Goldwater disse una sciocchezza formulando una frase contorta dentro la quale figuravano due parole sbagliate: Vietnam e Atomica. Lo staff democratico costruì uno spot televisivo nel quale si vedeva una bambina fare il “m’ama, non m’ama” con una margherita, contando un po’ a casaccio… La sua voce sfuma e in sottofondo si sente un conto alla rovescia tipo “Cape Canaveral”, la bambina apre gli occhi e dentro la pupilla si vede un fungo atomico. Bum. Voce fuori campo del presidente Johnson che dice che ama i bambini e non vuole la guerra e alla fine il messaggio: il 3 novembre vota Johnson.
Goldwater o i Repubblicani non vennero neppure nominati, eppure passò l’idea – che Johnson sapeva falsa – che una presidenza Goldwater avrebbe portato il mondo verso l’inverno nucleare. Una balla, ma ben raccontata, che costò carissima al Grand Old Party…
Per i ventenni degli anni ’60, la presidenza Johnson fu la presidenza del coinvolgimento massiccio in Vietnam. E certo l’immagine del presidente chino sulle mappe della jungla vietnamita, intento a spostare armate per offensive immaginarie come Hitler nel bunker non aiutò certo a renderlo popolare in anni di pacifismo e figli dei fiori. La presenza americana in Vietnam fu inutile e criminale e le macchie di sangue rimasero attaccate al vestito di Johnson per sempre, pur essendo un conflitto iniziato da Kennedy e reso folle e spaventoso soprattutto da Nixon.
Ma Johnson non fu solo il sangue del Vietnam. Johnson continuò la tradizione di Roosevelt dando forma di legge ai sogni riformisti di Kennedy. Perché LBJ era meno affascinante, meno suadente, meno intellettuale del raffinato liberal di Boston, ma sapeva muoversi molto meglio di lui dentro gli umori maligni del Congresso, portandolo la dove voleva arrivare. In particolare, nel biennio 1964-65, a rimuovere una volta e per sempre l’assurdo regime di apartheid che regnava le relazioni razziali nel sud del paese: divieto di matrimoni misti; divieto di accesso in locali pubblici per i neri; divieto di iscrizione nelle scuole e nelle università “bianche”; vincoli e limiti alla possibilità di esercitare il diritto di elettorato attivo e potrei continuare. Johnson, placidamente ma implacabilmente rimosse tutto questo. Il ciclo riformatore iniziò nel 1964 con l’approvazione del Civil Right Act (firmato alla presenza, tra gli altri, di Martin Luther King) che rimuoveva le più plateali forme di discriminazione, avocando allo Stato Federale una competenza fino ad allora ritenuta degli Stati federati, proseguendo poi nel 1965 con il Voting Right Act che eliminava praticamente tutti gli ostacoli che la creatività del razzismo del Sud aveva posto sulla strada dell’uguaglianza politica tra bianchi e neri. Nel 1967, infine, nominò giudice della Corte Suprema Thurgood Marshall, uno dei leader della “Associazione Nazionale per il progresso della gente di colore” e primo nero a ricoprire quella carica.
Il secondo pilastro della “Great Society” promossa da Johnson fu la “lotta alla povertà” e le politiche di inclusione sociale, che condussero a fondamentali interventi di welfare nel campo della sanità, dell’istruzione, del sostegno al reddito e della previdenza sociale. Interventi che – nella più pura tradizione rooseveltiana – diedero forma compiuta ai grandi programmi della presidenza Kennedy, dando vita a una sorta di “kennedismo realizzato” che neppure l’impegno demolitorio di Nixon e Reagan riuscirono a eliminare del tutto.
Insomma, oggi si ricordano i 40 anni della morte non di un santo o di un “uomo buono”. Ma di un Uomo di Stato, con tutto il bene e il male che di
regola si collega a questa espressione: coerenza, costanza, tenacia, spietatezza, visione, sogni e delusioni. E soprattutto realismo, fino all’ultimo, come quando, nel 1968, LBJ comunicò al Paese di non voler correre per la rielezione. Era disponibile a farsi carico della tragedia del Vietnam e portarsene la croce, pur di non danneggiare le chance democratiche di vittoria in quelle presidenziali.
Le presidenziali che avrebbe dovuto vincere Robert Kennedy, se solo un altro, misterioso killer solitario non lo avesse assassinato dentro la cucina di un grande albergo. E mentre anche Robert moriva, stringendo le mani di un lavapiatti sudamericano che cercava di fargli coraggio nel momento del grande passaggio, con lui finiva anche il sogno della “Nuova Frontiera” di Kennedy e Johnson. Ma questa è un’altra storia.
Autore: Marco Cucchini