12/02/2013 – Il governatore attira i big delusi: la lista “Megafono”, collegata al Pd a Palazzo Madama, può valere 10 senatori. Cimino ha lasciato Grande Sud e promuoverà il voto per il centrosinistra. Anche Mineo ha lasciato Micciché: “È soltanto una pallina impazzita” .
“Più uno”, mormora soddisfatto Salvo Alicata attraversando lentamente il mercato di Partanna con il suo mazzo di volantini in mano, mentre un vento gelido diffonde nell’aria il profumo delle bancarelle di mandarini. Più uno: un altro voto conquistato per la sfida decisiva, una pensionata che voterà Cinque Stelle alla Camera e Pd al Senato, “perché non ne può più di questi politici, ma vuole essere sicura che non torni Berlusconi”.
Salvo ha 41 anni e s’è fatto le ultime cinque campagne elettorali sulla strada, tra i mercatini e il porta a porta. Vede poco la tv, ma di gente ne incontra tanta. “La rabbia è forte e il malumore è alto” avverte. Eppure oggi, per la prima volta dopo tanti anni, è ottimista. “Ex democristiani, berlusconiani delusi, seguaci di Ingroia: hanno capito che la partita si vince o si perde al Senato, e non getteranno via il loro voto. I più duri sono i grillini, incavolatissimi, per loro Pd e Pdl sono la stessa cosa, ma ogni tanto qualcuno riusciamo a convincerlo. Eravamo già a otto. Più uno: nove”.
Mai come stavolta è scattata la caccia al singolo voto, in Sicilia. Perché questa è una delle regioni in bilico, tra centrosinistra e berlusconiani, e chi dei due prenderà anche un solo voto più dell’altro si aggiudicherà il premio, anzi il superpremio. Giuseppe Lupo, il segretario regionale dei democratici, fa i conti su un foglio a quadretti:
“Se vincono loro, noi prendiamo al massimo quattro senatori su venticinque. Se vinciamo noi, ce ne toccano quattordici. E sarà una manciata di voti, a stabilire a chi andranno quei dieci seggi che a Palazzo Madama faranno la differenza”.
La stagione del sessantuno a zero, quando nel 2001 Berlusconi si aggiudicò tutti i collegi dell’isola, senza lasciarne neanche uno a Rutelli e ai suoi, oggi sembra lontana quanto il paleolitico. Divisi da una insanabile rivalità che si è rapidamente trasformata in odio viscerale, i viceré berlusconiani hanno ormai dilapidato il patrimonio elettorale di dodici anni fa, e l’uscita del Cavaliere da tutti i palazzi del potere ha dato il via alla Grande Fuga, un esodo tanto massiccio quanto imbarazzante. Dopo Francesco Musotto, icona forzista dell’errore giudiziario, non si contano più i parlamentari, i deputati regionali, gli ex assessori regionali, i sindaci e i grandi elettori che hanno lasciato il centrodestra.
Solo negli ultimi tre mesi sono stati in sedici a mollare Alfano o i suoi alleati di ritorno, Micciché e Lombardo. Il penultimo è stato l’ex vicepresidente della Regione Michele Cimino, potente signore delle preferenze dell’agrigentino, fino a ieri numero due di Grande Sud: “Voto e faccio votare il Pd alla Camera e il Megafono di Crocetta al Senato” ha annunciato. L’ultimo è stato Franco Mineo, candidato alle regionali nonostante un processo in corso, che se n’è andato sbattendo la porta: “Micciché è una pallina da flipper impazzita, ormai non ha più nemmeno un voto”. L’ex viceministro, furibondo, finge sollievo per mascherare l’ira: “Sono solo rincalzi, abituati a rovinare lo spogliatoio”.
Ancora più spettacolare, per la sua fulminea velocità, è stata la transumanza delle truppe di Raffaele Lombardo, l’ex governatore che aveva costruito la sua piramide del potere strappando a suon di nomine i portatori di voti agli alleati. Il primo ad andarsene è stato il suo numero due, Lino Leanza. Poi uno dopo l’altro gli hanno detto addio il segretario del movimento, Pistorio, il capogruppo all’Assemblea regionale, D’Agostino, e persino il fratello Angelo (“Il mio dovere personale verso l’Mpa può considerarsi nullo, già a partire da oggi”), e anche se adesso l’ex governatore giura pubblicamente che “la polemica è strarisolta” l’uomo che appena cinque anni fa confidava spavaldamente di puntare “al 51 per cento dei voti dei siciliani” non sa neanche se riuscirà a superare la soglia minima del 3 per cento che gli permetterà di assicurarsi uno scranno a Palazzo Madama.
E siccome i siciliani hanno sempre avuto un fiuto imbattibile per il potere, chi lascia Berlusconi, Micchiché o Lombardo punta direttamente su Crocetta, e pazienza se è un ex comunista, pazienza se è un gay orgoglioso di esserlo, pazienza se dice che vuole castigare chi ha sfasciato la Sicilia: è lui il nuovo uomo forte, ed è alla sua porta che bisogna bussare.
Crocetta, che ha capito tutto questo prima degli altri, ha steso un tappeto rosso davanti alla sua porta e ogni volta che l’Assemblea regionale si riunisce vede crescere la sua coalizione: era partito in minoranza, 39 seggi su 90, e adesso ha appena conquistato il deputato numero 46 che gli garantirà, almeno sulla carta, la maggioranza in aula. E ogni deputato regionale, ogni sindaco, ogni assessore che arriva sulla sua sponda si porta dietro – come Cimino – il suo pacchetto di voti. Suscitando l’ira del luogotenente di Lombardo, Rino Piscitello (ex Pdup, ex Dp, ex Rete, ex Margherita, ex Ulivo: al momento Mpa) che minaccia di andare in Procura per denunciare, dice, “questo mercato delle vacche”.
I traghettatori sono due. Il primo è l’ex presidente dell’Antimafia Beppe Lumia, che è poi il grande suggeritore di Crocetta, oltre che il numero uno della sua lista al Senato, “Il Megafono”. E’ proprio su questa lista, collegata con il Pd, che Bersani conta per conquistare quei preziosissimi dieci seggi in più. E nella vittoria dell’alleato, Crocetta cerca il suo successo personale: “Saremo il più grande movimento autonomista dell’isola, la prima forza politica in Sicilia”. Il secondo è l’ex ministro Salvatore Cardinale, inventore del gruppo-omnibus “Democratici popolari e riformisti” dove confluiscono i transfughi, e che confida agli amici di ricevere ogni mattina una telefonata da Roma: “Oggi quanti ne abbiamo conquistati?”.
Nella terra dei gattopardi, la politica è sempre stata alimentata da questi fiumi carsici di voti controllati uno per uno dai signori delle preferenze, anche se oggi il segretario del Pd Lupo non crede ai miracoli: “Chiunque può spostare un voto ben venga. Ma il voto organizzato che si sposta da una parte all’altra all’ultimo momento è solo una chimera”.
E allora, chi e cosa deciderà la vittoria? Tra Bersani e Berlusconi qui c’è soprattutto Grillo, che è l’unico a riempire le piazze anche quando piove perché riesce a intercettare perfettamente la rabbia dei siciliani contro la politica. Poi c’è l’incognita Monti, che candida l’imprenditrice Gea Schirò Planeta e il costruttore antiracket Andrea Vecchio ma non ha un partito alle spalle. Alla fine, quasi sicuramente, risulterà determinante il voto disgiunto. Come quelli che Salvo Alicata conquista al mercato di Partanna. O come quelli che il leader della Fiom di Termini Imerese, Roberto Mastrosimone, suggerisce ai suoi compagni del sindacato: “Ingroia alla Camera e Pd al Senato: non possiamo consegnare la Sicilia a Berlusconi”.
Quanto a lui, a “Belluscone” come lo chiamano alla Vucciria, il suo mito è stato schiacciato dalla crisi e frantumato dagli scandali, anche se la senatrice Simona Vicari assicura che “da quando lui è tornato in campo, nei mercati e nei quartieri popolari lo invocano in tanti”. Sarà. Nel dubbio, il Pdl ha adottato la tecnica delle liste a grappolo: più voti portano, più il premio si avvicina. Il capolavoro è stata la lista della Lega Nord depositata dal sindaco di Alimena, Giuseppe Scrivano, già sicilianista, già nazionalista.
A corto di proseliti leghisti, il sindaco ha messo in lista la moglie Mirella, il cugino Giacomo, la cognata Liboria e la zia Maria. Non bastavano. Così il suo assessore Gaspare D’Amico ha portato la moglie Maria Rosa, il padre Calogero, la madre Carmela e la sorella Giuseppina. In tutto, tra congiunti, consanguinei e imparentati, alla fine tra Camera e Senato ne hanno contati 18. “Tanti parenti – ha ammesso il sindaco, serafico – ma nessuna amante”.
Fonte: repubblica.it | Autore: Sebastiano Messina