Storia di una sconfitta: anche la rete condanna il Pd

Storia di una sconfitta: anche la rete condanna il Pd

01/03/2013 – Perché ha perso il Partito Democratico? È una delle domande più frequenti in questi giorni di commenti postelettorali. La valanga di analisi – non soltanto quelle delle firme autorevoli, ma anche quelle degli amici di Facebook – ci sommerge.

Tra le tante, merita un commento il lavoro degli analisti di BuzzDetector che hanno setacciato circa 600 conversazioni in rete (avvenute prima delle elezioni, tra Novembre e Febbraio) relative ai punti di debolezza del PD. Un lavoro molto utile perché la ‘rete’ – anche se in Italia siamo ancora agli albori del fenomeno – può diventare un luogo cruciale per il posizionamento e la raccolta del consenso delle forze politiche.

Da queste conversazioni sono emersi 13 giudizi ricorrenti che illustrano bene le cause della sconfitta. Gli utenti della rete di questo PD dicono:
1. non è il mio PD
2. è un partito che ha paura di perdere
3. è il partito di Rosi Bindi
4. è il partito della lepre, della war room e dello smacchiamolo, smacchiamolo
5. è un partito che si allea con chiunque per lo status quo
6. è un partito senza una strategia
7. non sa che lavoro faccio
8. ha avuto paura di andare al governo
9. non è in grado di garantire i diritti civili del fine vita, coppie di fatto
10. si è fermato alle Frattocchie
11. si presenta con il Berlusconi della sinistra
12. non ha orgoglio
13. “prima vinciamo e poi decidiamo come fare”
In queste ore in cui i lamenti di dolore si mischiano già al rimpallo di responsabilità e alle autocritiche consolatorie, questi giudizi appaiono crudi e crudeli, ma fondamentali per chi vorrà farne buon uso.

1. I signori ‘tentenna’
I dirigenti del PD non sanno cosa vogliono. Totale mancanza di linea. Non una proposta. Più volte Bersani, nei colloqui privati e nelle interviste pubbliche, ha confessato: le cose si fanno e poi si dicono. Una frase che a molti militanti può apparire espressione di grande tempra morale e di ineccepibile serietà. Ma che in rete – e soprattutto nelle urne – non è bastata ai tanti elettori legittimamente in cerca di chiarezza strategica e programmatica. L’assenza di un timone è diventata via via palpabile e insopportabile.
Il PD non è riuscito a scegliere: prima ha abbracciato Vendola e il Psi (che insieme non arrivano al 4 per cento) senza misurarsi con iscritti e delegati; ha blandito Renzi per delegittimarlo e poi scaricarlo; ha sostenuto Monti per poi diffidarne. Ha cercato di farsi troppi amici, ricavando sguardi obliqui e perplessi. Avrebbe dovuto con coraggio sposare un progetto: ha rifiutato quello liberaldemocratico, ha lambito quello socialdemocratico ma non troppo sospettando (a ragione) che fosse senza sbocco, ha schivato la rabbia popolare e la domanda di democrazia diretta raccontandosi la storia del populismo.
Ma c’è di più. Perché, nel tempo, il Partito democratico è diventato il partito delle intese (più o meno larghe) e non degli obiettivi. “Un partito che si allea con chiunque per lo status quo” è un partito che valuta ottimale il proprio risultato politico non più in base al contenuto di programma realizzato, ma in base alla capacità di stringere un’alleanza. Un partito che “prima vinciamo e poi decidiamo come fare” perde l’orizzonte delle soluzioni e riduce tutto a tattica.
Senza scegliere, il PD ha trasmesso paura: “di perdere”, ma anche “di andare al governo”. La mancanza di bussola, alla fine, ha fatto disperdere la direzione del voto.

2. I signori ‘agèe’
Nonostante lo sforzo apparente delle primarie, l’immagine del partito è rimasta saldamente ancorata alla generazione novecentesca della Prima Repubblica. Facile incarnarla in colei che (“è il partito di Rosi Bindi”) ha cominciato la carriera politica come europarlamentare della Democrazia cristiana nel lontano 1989… Lo stesso Bersani, con il suo paternalismo così saldamente radicato nella provincia cattolica e comunista, è stato alla lunga vissuto come speculare al suo acerrimo avversario, ma ugualmente – se non maggiormente – ‘antico’.
Sarebbe ingiusto, però, prendersela solo con la classe dirigente. Le file ai gazebo di ottobre erano piene di fedeli e rispettabili elettori anziani. Compassato e ‘antico’ era lo scarso pubblico del comizio finale all’Ambra Jovinelli di Roma dove la diciottenne al primo voto che ha parlato dal palco svolgeva il tipico ruolo della mascotte nel solito vecchio circo.
Ovviamente, al di là del dato generazionale, apparentemente riequilibrato con la selezione delle primarie interne, il ritardo è prima di tutto culturale. Lo stesso staff del segretario nonché i quadri intermedi – pur fatti da giovani – sono stati percepiti come ‘vecchi’ per mentalità.
Nessuno stupore, dunque, se, all’indomani del voto, il comitato di emergenza del PD convocato per commentare il risultato e indicare la linea riesumasse i D’Alema, Veltroni, Violante, Franceschini, Marino, La Torre, Bindi, Fioroni e via elencando. I cittadini – che non sono stupidi – lo avevano già capito. E avevano risposto come sanno rispondere gli elettori ‘infedeli’…

3. I signori dei ‘piani alti’
Per tutti i motivi di cui sopra, il PD è un partito “fermo alle Frattocchie”. E’ vero: questa piccola noterella storica è certamente ingenerosa. Ma la rete, si sa, è cattiva. Ti ammazza con sarcasmo. Ha un suo modo per dirti la verità.
E la verità è che l’arretratezza è prima di tutto culturale e che i gruppi dirigenti sono autoreferenziali. Non è che non stanno nel territorio. E’ che non stanno nella realtà.
Il PD è un partito “che non sa che lavoro faccio” è fra tutte l’affermazione più grave. Significa che ha perso i contatti con i problemi concreti dei cittadini, con quei lavoratori che una volta erano il suo blocco sociale, con la modernità che ha creato nuove forme di occupazione. Quelli che si lamentano in rete fanno cose che quelli del PD nemmeno conoscono. Ecco perché i lavoratori del Sulcis votano Grillo: perché c’è andato. Ecco perché i lavoratori dell’Ilva non votano il centrosinistra: perché si è dato. Ecco perché le partite Iva votano Berlusconi ieri e 5 stelle oggi: perché non sono evasori fiscali come pensano quelli del PD, ma precari senza tutele vessati dalle leggi e dal fisco.
Il PD sta troppo in alto per vedere tutta sta roba, figurati che cosa percepisce della rete.
E gli utenti della rete si fanno sentire. Probabilmente nel timore di perdere il voto dei cattolici (che, a quanto pare però, sembra estinto con queste elezioni) ha accuratamente evitato di affrontare temi di grande attualità come i diritti civili. Questo partito “non è in grado di garantire i diritti civili del fine vita o delle coppie di fatto”. Tanto emerge dalle conversazioni in rete, fatte molto spesso da persone che nel frattempo sono benissimo sintonizzate sull’attualità internazionale e sanno perfettamente che nei recenti referendum svoltisi in alcuni stati americani, i cittadini USA hanno dato l’ok sui matrimoni gay e che lo stesso hanno fatto nuove leggi in Francia e nel Regno Unito.

4. I signori ‘zimbello’
Bersani aveva di fronte due titani dell’entertainment. Grillo e Berlusconi sono due attori straordinari, capaci di trascinare il pubblico dove dicono loro. Sanno scegliere il copione, sanno fare le battute, sanno fare i simpatici e sanno anche ruggire. Bersani lo sapeva e ha scelto – almeno all’apparenza – la sobrietà della comunicazione: un profilo di serietà e autorevolezza per conquistare la fiducia contro le false promesse.
Non è andata bene. E le conversazioni degli utenti della rete lo avevano anticipato.
In primo luogo, l’assenza di contenuti è ricaduta sulla comunicazione. Come si fa una campagna elettorale senza anticipare neanche una proposta o un punto di programma? L’assenza di strategia è diventata una evanescenza della parola.
L’illusione del vantaggio acquisito ha prodotto sicumera. E la sicumera ha prodotto ingenuità colossali. Proprio nelle scelte di comunicazione. Ad un certo punto, Bersani si è pensato lepre. Il PD, il partito della lepre in fuga da inseguire. La deriva zoologica ha raggiunto l’apice nel giaguaro Berlusconi. Fino alla fine, Bersani gli ha promesso “una smacchiatina”. E il suo staff è riuscito a produrre uno dei video più insulsi e imbarazzanti che si ricordino (almeno questo, però, programmatico…: “lo smacchiamo!”). Capace forse di motivare i fedeli. Ma anche di scatenare le risate dei più smagati.
Alla fine, le conversazioni in rete sono diventate crudeli. La lepre l’hanno acchiappata. E il giaguaro sta lì beato a coccolarsi le macchie.
La stessa war room della comunicazione è diventata una riedizione della gioiosa macchina da guerra del 1994: insomma, venti anni senza maturare non dico una coscienza del pericolo, ma almeno una scaramanzia contro il ridicolo. Il partito si è affidato ai ‘300 spartani’, un migliaio circa di volontari sparsi in giro per l’Italia e coordinati dal terzo piano della sede di Sant’Andrea delle Fratte, ispirati alle gesta epiche degli antichi guerrieri greci. Tutti giovani pieni di entusiasmo e passione, impegnati senza risparmio h24: ma che hanno svolto il compito di pretoriani del loro candidato piuttosto che quello di comunicatori. Anche qui la rete ha colpito quasi subito: come si fa a ispirarsi a quei soldati – eroici, per carità – ma che morirono tutti senza eccezione alle Termopili? Nemmeno a scriverlo ti riesce, un copione così…
Alla lunga, la stessa figura del segretario è diventata quella dello zimbello, oggetto di lazzi e sberleffi. E il Gargamella democratico è finito travolto dai puffi a cinque stelle.

Ecco perché per l’utente della rete questo Pd «non è il mio PD».

Fonte: linkiesta.it | Autore: Vittorino Ferla

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