10/03/2013 – Ricorsi storici e governabilità. Napolitano fu decisivo per superare l’impasse post voto e varare il “governo di minoranza” Andreotti
Correva l’anno 1976 quando nel giugno si celebrarono le elezioni che segnarono la fine della battaglia politica fra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano. Ribattezzate «elezioni del sorpasso», i comunisti avrebbero dovuto mettere la freccia sui rivali Diccì. Tant’è che le forze conservative e moderate ci provarono in tutti i modi a fermare l’onda comunista. Addirittura ci fu chi, come Indro Montanelli, dalle colonne de il Giornale invitò gli elettori italiani a «turarsi il naso e a votare Dc».
In realtà le elezioni confermarono sì un trend positivo del Pci (34,4%), una sorta di massimo storico, ma anche un recupero della Scudo crociato (39,7%) che continuò ad essere il primo partito nel paese. E, non secondario, segnarono una disfatta per il partito socialista (solo il 9,6% dei voti), che perse molti consensi, segnando così la fine della segretaria De Martino. La situazione era quindi di stallo. Regnava il caos. Al punto che i telegiornali dell’epoca titolavano così: «Ha vinto la Dc, ha vinto il Pci, forse a perderci sono stati gli italiani». Il mondo stava cambiando, e la politica italiana era ad un crocevia.
Come riuscire ad invertire la rotta? Come trovare una sintesi per garantire la governabilità del Paese? In questo contesto iniziò la stagione dei governi ribattezzati della “non sfiducia”, o governi delle “astensioni”, che avviarono un dialogo e un confronto fra democristiani e comunisti. Su proposta democristiana, si avvia quindi un tavolo tra tutte le forze del cosiddetto “arco costituzionale”, quindi senza il MSI, per una suddivisione delle cariche istituzionali, con una spartizione delle altre cariche (Vice Presidenti, Segretari e Questori dei due rami del Parlamento) sulla base della percentuale raggiunta. Nasce il cosiddetto “consociativismo”, la prassi di permanente consultazione e suddivisione di cariche e spesa pubblica tra i maggiori partiti italiani, soprattutto Dc e Pci, che sfociò nell’elezioni di Pietro Ingrao a Presidente della Camera. E soprattutto, il 26 luglio del 1976, nella nascita di un “monocolore” democristiano guidato da Giulio Andreotti, che ottenne la fiducia con l’astensione di Pci, Psi, Psdi, Pri, e Pli.
E proprio in questa fase ebbe un ruolo importante, un ruolo di cucitura, un dirigente del Partito Comunista, che si chiamava Giorgio Napolitano. Lui, Napolitano, apparteneva all’ala amendoliana, la corrente riformista del Pci, aperturista al dialogo con i socialisti e con il mondo occidentale. In quell’occasione il “migliorista” Napolitano «caldeggiò moltissimo un accordo a tutti i costi con la Dc. A differenza dell’altro compagno Emanuele Macaluso, anche lui amendoliano di ferro, che in quel contesto spinse per raggiungere un’intesa con i socialisti», racconta oggi un ex dirigente del Pci.
Ma cosa c’entra tutto questo con l’attuale situazione politica? In realtà, come spiega a Linkiesta l’editorialista del Corriere della Sera Antonio Polito, «l’esperienza del 1976 è un precedente che al Quirinale guardano con interesse». Però, «c’è una differenza profonda – spiega Polito – rispetto alla situazione attuale. Allora si misero d’accordo i due vincitori. Questa volta i partiti che dovrebbero mettersi insieme sono i due perdenti. Allora l’opposizione fu fatta da Craxi, oggi da Grillo».
Di altro avviso Peppino Caldarola, ex direttore de L’Unità, e grandissimo conoscitore della sinistra italiana: «Quello del ’76 è un esempio non positivo, non produsse alcun effetto. Non regge perché quello nasceva da un progetto più lungo di due forze politiche che imparavano a conoscersi. Infatti nella cultura della sinistra quella fase non viene presa in considerazione. Semmai il ’76 potrebbe essere il modello Bersani che propone l’astensione». Oltretutto, continua Caldarola, «lì erano due vincitori che deponevano le armi. Qui la tregua non c’è. Dopo il caso De Gregorio il Pd non può proporre l’accordo ad uno che si è comprato i parlamentari».
Anche se la decisione finale spetterà al Capo dello Stato che proprio nel 1976 fu il portavoce ed uno dei protagonisti del Pci nei rapporti con il governo Andreotti, ed oggi, come ieri, spinge affinché l’Italia «si dia un governo ed esprima uno sforzo serio di coesione».
Fonte: linkiesta.it | Autore: Giuseppe Alberto Falci