26/03/2013 – La strategia di Bersani è tanto semplice quanto complicata, verrebbe quasi da dire che più che una strategia è un ossimoro.
Pierluigi Bersani, infatti, per far tornare i conti vuole cercare di coinvolgere il centrodestra nel grande disegno di riforma costituzionale, governando nel contempo con l’appoggio (più o meno mascherato) del Movimento 5 Stelle. Non si tratta di una idea nuova: altre volte nella storia dell’Italia repubblicana, infatti, si è cercato di tenere separato il tavolo delle riforme dal tavolo del potere esecutivo, incrociando due maggioranze diverse (quando non divergenti) al fine di conseguire una distinzione tra l’indirizzo politico e il coinvolgimento ampio nella definizione delle regole del gioco.
Il problema è che nel passato- tranne un solo caso – questo esperimento non ha mai funzionato. Nel 1983 si cercò di dare vita al primo esperimento di riforma ampia della II Parte della Costituzione (quella relativa all’Ordinamento della Repubblica) creando una commissione parlamentare bicamerale di 40 membri presieduta dal deputato del PLI Aldo Bozzi, che fu membro dell’Assemblea Costituente.
Chi presiedeva il governo era allora il socialista Bettino Craxi alla guida di un esecutivo pentapartito (DC-PSI-PRI-PSDI-PLI). La Commissione si mise al lavoro di buzzo buono mentre il governo Craxi sferragliava e – contrariamente alle previsioni – il clima tra i partiti fu produttivo, soprattutto tra il segretario della DC Ciriaco De Mita e quello del PCI Enrico Berlinguer, entrambi membri della “Bozzi”.
Paradossalmente, il clima di fattiva cooperazione registrato durante i lavori e la qualità delle proposte avanzate (che potrei sintetizzare in una riforma “nella” Costituzione, piuttosto che “della” Costituzione) fu la causa principale delle sfortune della I Bicamerale. Infatti, nel mentre Berlinguer e De Mita flirtavano al tavolo delle riforme, il governo aveva scatenato il conflitto con il PCI e la CGIL sul tema del taglio della “scala mobile” (cioè l’adeguamento automatico dei salari all’inflazione) e la paura di Bettino Craxi era di venire spazzato via da un accordo (oggi diremmo un “inciucio”) tra democristiani e comunisti che – con la scusa della pace sociale e delle rif0rme – portasse alla nascita di un governo di Grosse Koalition a guida democristiana. La morte di Berlinguer (1984) fu per certi versi anche la morte della Bicamerale, venendo a mancare uno dei due interlocutori più motivati e la volontà craxiana di farla finita con il “tavolo” delle riforme fece il resto.
Tralasciando la II Commissione Bicamerale (la De Mita/Iotti del 1992-94) che fu spazzata via da Tangentopoli e dalla crisi della I Repubblica, un altro esempio della strategia dei “Due Tavoli” fu la III Bicamerale, quella presieduta da Massimo D’Alema (1997-98). A differenza di Aldo Bozzi – personalità rispettabilissima ma politicamente debole – la figura di Massimo D’Alema è quella del leader che “ce la deve fare” e quindi dar vita a una nuova commissione, dotata di poteri molto ampi, con al suo interno tutti i principali leader politici (oltre a D’Alema, Fausto Bertinotti, Pierluigi Castagnetti, Pierferdinando Casini, Gianfranco Fini, Umberto Bossi e Silvio Berlusconi) avrebbe dovuto essere garanzia di riuscita.
Anche stavolta, però le cose non andarono nel verso desiderato. Se nel 1983-85 fu una forza di governo a rovesciare il tavolo (il PSI), nel 1997-98 fu invece il leader dell’opposizione, Berlusconi, che – in crisi di consensi e di legittimità dentro la sua coalizione, per ristabilire “l’ordine naturale delle cose”, rovesciò il tavolo e mandò a monte l’ambiziosa architettura dalemiana.
I due tavoli ricomparvero ancora nel 2011-2012, quando nacque il governo Monti, all’insegna del motto “io sistemo i conti, voi riformate la politica”. Tecnicamente, non furono due tavoli separati dal punto di vista della maggioranza politica di sostegno, dato che le forze che sostenevano Monti avrebbero dovuto essere le medesime che cambiavano alcuni aspetti della legge elettorale e del bicameralismo. Questa volta non si fece nulla per i veti incrociati e per la malcelata volontà di tutti i partiti di farsi “un ultimo giro di porcellum” e quindi stavolta il primo tavolo lavorò, mentre il secondo non produsse nulla…
Ci si chiede quindi, come può Bersani pensare di riuscire la dove fallirono tanti illustri altri leader? Perché mai la strategia dei due tavoli dovrebbe questa volta funzionare? Bersani si può aggrappare a un unico, un solo precedente, quello del 1947 quando – rotta la coalizione di governo con i comunisti e i socialisti – De Gasperi diede vita a un governo di centro, ma nonostante il chiasso delle piazze e dell’aula parlamentare, il lavoro dei padri costituenti continuò con il medesimo impegno, separando rigidamente la polemica quotidiana dal “disegno lungo” di costruzione del nuovo assetto istituzionale.
E’ un precedente notevole e Bersani fa bene a tenerlo a mente. Però deve ricordare una cosa: lui non è Togliatti e Berlusconi non è certamente De Gasperi. Ogni stagione politica ha i leader che si merita, a noi toccano questi.
Autore: Marco Cucchini