Se qualcuno si mettesse a fare ricerche archeologiche, troverebbe un mio scritto del 2003 su “Democrazia e Forma di Governo Locale” contenuto in una pubblicazione promossa dalla Regione Friuli Venezia Giulia dal titolo “Le Autonomie Locali nelle specialità regionali“.
Partendo dalla domanda “che cosa possono fare gli statuti comunali per dare forza alla democrazia?” Mi sono messo a studiare, analizzare e comparare 50 statuti di altrettanti comuni della nostra regione e ho scoperto l’acqua calda, cioè che l’autonomia statutaria non è presa sul serio. Non sono del tutto sicuro che le cose siano cambiate nei 10 anni che separano questa strana primavera 2013 dalla data della mia pubblicazione, soprattutto nei comuni più piccoli.
Le ragioni di un sostanziale fallimento dell’autonomia statutaria (per lo meno nella parte che riguarda la forma di governo, quindi la più importante) risiede in diversi fattori: ignoranza diffusa sullo strumento, pigrizia e scarsa fantasia, prevalenza di interessi di breve periodo su quelli di medio lungo, assenza di una idea di democrazia, di città e di comunità. Però è un peccato, perché tramite lo strumento statutario si potrebbe veramente agire per dare una connotazione più aperta e originale alla democrazia in città.
Alcuni possono essere gli spunti in questa direzione:
1. Rafforzamento dell’assemblea elettiva. Il ciclo di riforme iniziatosi con la l. 242/1990 e poi seguito dalla 81/1993 (elezione diretta del sindaco) e dalle “Bassanini” del 1997-98 hanno rovesciato i rapporti di forza nell’ambito del governo locale, spostando l’asse da una situazione di totale prevalenza del consiglio comunale ad una di totale sottomissione dell’assemblea elettiva al sindaco e alla giunta, in base alla tradizione tutta italiana del passare da un estremo all’altro. Interventi successivi (ad esempio il T.U. 267/2000) hanno cercato un po’ di riequilibrare i rapporti di forza, ma senza grande successo. Non va dimenticato che l’elettore dispone di un doppio voto: sceglie il primo cittadino, ma sceglie anche il proprio rappresentante in consiglio comunale. Sindaco e consiglio entrambi titolari della rappresentanza politica diretta e quindi entrambi meritevoli di una adeguata valorizzazione delle funzioni e delle competenze che il quadro normativo attribuisce loro.
Il rafforzamento dell’assemblea elettiva passa attraverso una tendenziale separazione tra funzioni di indirizzo politico e funzioni esecutive, una maggiore autonomia riconosciuta al lavoro del consiglio e un rafforzamento di ruolo e poteri delle commissioni consiliari e una valorizzazione delle opposizioni, che non devono essere vissute come “una rogna”, ma come un valore, come uno stimolo. E’ un passaggio più culturale che politico o istituzionale, ma la mia convinzione è che se il legislatore ha pensato che la forma di governo locale debba funzionare con due motori, non c’è ragione in base alla quale uno dei due debba funzionare a singhiozzo.
2. Rafforzamento dei corpi intermedi. Mondo associativo, realtà territoriali periferiche, consulte varie, strumenti di web democracy… ci sono molti mezzi per favorire la democrazia “dal basso”, per evitare che il cittadino sia tale una volta ogni 5 anni. La mia convinzione è che la democrazia si nutra non solo di partecipazione elettorale ma anche di incontro tra interessi diversi, di dialogo e di confronto. Il voto – per certi versi – tra tutte le forme di partecipazione democratica è quello più rozzo, taglia le questioni in due ed impedisce quel reciproco arricchimento, quella dimensione anche didattica che solo l’esistenza di luoghi di discussione e mediazione possono dare.
Questo è diverso dall’approccio di quanto hanno in testa – ad esempio – nel M5S. La loro idea di un cittadino perennemente “deliberante” riduce la democrazia ad un Si o un No, perdendo lungo la strada tutto il valore del compromesso non come “pateracchio”, ma come strategia di inclusione nei processi decisionali di un numero più alto di attori. Votare senza capire, cercare sempre di avere un vincitore e un vinto, rifiutare dialogo e mediazione questo è l’opposto dell’idea di democrazia e di società che mi ha sempre accompagnato e contro questo modello (e in favore di dimensioni partecipative costruite sul merito delle questioni, non sulla somma delle teste) va convinto il mio impegno.
3. La democrazia diretta. Referendum consultivi (magari aperti ai 16 e ai residenti stranieri) e assemblee di circoscrizione e di quartiere, processi deliberativi partecipati, anche questi sono strumenti da valorizzare. Certo è difficile, molto difficile, tenere vivo l’interesse della gente ed evitare che strumenti pensati per un coinvolgimento ampio diventino in realtà elitari, magari lobbistici… il rischio di referendum proposti da una minoranza o assemblee alle quali partecipano solo pochi motivati è certo alto, ma penso che il tentativo vada fatto, che l’obiettivo sia da perseguire e la sensibilità c’è, visto che alcune amministrazioni hanno più volte dimostrato interesse verso un’ampliamento della base democratica del governo locale.
L’idea è pertanto quella di favorire un modello di città dove le istituzioni politiche siano messe tutte nelle condizioni di funzionare, dove il pluralismo associativo e rappresentativo è valorizzato e dove a questo si affiancano modalità classiche o innovative di partecipazione diffusa. Uno degli strumenti è quello dello Statuto Comunale. Certo, non è l’unico strumento, ma in fondo, da un professore di diritto costituzionale che cosa attendersi se non una certa attenzione per le regole formali?
Autore: Marco Cucchini