29/04/2013 – Attenzione, Spoiler!
Nel 1990, una testa d’uovo di Harvard – Joseph Nye – ha creato il termine “soft power” per descrivere la capacità degli Stati Uniti di affermarsi nel mondo grazie all’attrattività e al fascino del suo modello sociale e culturale. Il termine mi è tornato in mente ieri sera, andando al cinema a vedere “Olympus has fallen“, tradotto – non si sa perché – con “Attacco al Potere”.
Le due ore di film tutto sommato passano rapide, tra botti, urla, sparatorie, morti ovunque e il rischio che il pianeta salti in aria da un istante all’altro. Tutto considerato, è pure divertente godersi quella mattanza sprofondati nella comoda poltrona del cinema, con il pop-corn da sgranocchiare, mentre attorno a te infuria l’inferno…
A un esame appena un pochino più serio, il film si conferma un prodotto tipico della cinematografia ideologica americana, quell’arma raffinata grazie alla quale negli anni ’40 e ’50 gli Stati Uniti hanno esercitato il loro soft power per convincere il mondo che il loro modo di vivere, il loro governo e il loro sistema di valori erano il migliore in assoluto e chi non lo condividesse non solo era in errore ma, inevitabilmente, un nemico, da convincere, isolare o eliminare.
Gli anni ’60 e ’70 hanno un po’ messo in discussione questa impostazione rigidamente nazionalistica: il cinema ha iniziato a mostrare anche il lato oscuro della Luna americana e quindi ci sono state pellicole fortemente critiche nei confronti del genocidio verso i pellerossa o verso le politiche in Vietnam ma si è comunque sempre trattato di una visione per certi versi intellettualistica ed elitaria: per la massa il governo americano ha continuato ad incarnare il “bene” mentre “gli altri” (ieri sera i nord coreani, ma in passato sovietici e post-sovietici, islamici, ex nazisti… ogni decennio ha la sua strega da bruciare…) sono invariabilmente il “male” e le sfumature, i punti di vista diversi, le domande aperte non sono ammesse, neppure se raccontano storie di 2 secoli fa. Master & Commander (lo splendido filmone marinaro con Russel Crowe del 2003) è stato postdatato di 20 anni rispetto al romanzo da cui è tratto per poter far in modo che il “cattivo” non fosse incarnato da una nave americana durante gli anni della Rivoluzione, ma potesse essere credibilmente individuato nella Francia imperiale, Paese che all’epoca al popolino USA stava pure parecchio sulle balle perché non condivideva la politica guerrafondaia nel Golfo Persico.
Certo, tutti abbiamo le nostre colpe in questo: la versione italiana di Casablanca è infatti “taroccata” a fini nazionalistici: se vediamo il film in lingua originale, scopriamo infatti che Rick non ha venduto armi “ai cinesi” come viene detto in italiano, ma agli “etiopi” e che non ha combattuto in Spagna “per la Repubblica”, ma “contro i fascisti”. Ma peccatucci veniali in confronto al delirio nazionalretorico della filmografia USA, che in “Attacco al Potere” presenta una perfetta rassegna di tutti i luoghi comuni e le baggianate ideologiche utili per rendere felici le anime semplici della Corn Belt. Ricordiamole:
1. La santificazione della Presidenza. Il presidente USA non è mai pusillanime (tranne – forse – lo splendido Gene Hackman/Alan Richmond raccontato dall’iconoclasta Clint Eastwood in “Potere Assoluto“). Forse è un po’ delinquente, ma mai una mezza tacca. Questo conferma gli americani che – comunque sia – alla guida del “Mondo Libero” (quello di Capo del Mondo Libero è uno dei sobri appellativi che vengono dati al presidente americano, da far impallidire quello di Caro Leader e addirittura l’indimenticabile Genio dei Carpazi attribuito a Ceaucescu) ci sta comunque un tizio (mai una tizia: possono esserci gli alieni alla Casa Bianca, ma non una donna) che sa fare il “Commander in Chief” come si deve.
2. Un uomo solo contro il destino. C’è sempre un uomo che si assume la responsabilità di risolvere i problemi. Le grandi crisi, ma anche le quotidiane sfide della vita, non sono mai affrontate e risolte grazie alla collaborazione e alla solidarietà tra gruppi, ma – a santificazione dell’individualismo darwiniano che regge la società americana – il tutto va delegato sempre e comunque a un singolo che con grande forza e carisma esce da solo e senza aiuti dai pozzi più profondi. E le donne? beh, come in “Attacco al Potere” frignano, amano e impicciano, in fondo utili come un arricciaciglia in mezzo al Sahara. L’uomo solo non ha regole (tranne le sue, di solito riconducibili in un sobrio “spaccotutto”), non riconosce principio di autorità, non media e non ha pietà. Si copre di sangue ma in fondo, crediamo sia buono. Buono e invulnerabile perché in tutti i film del genere gli sparano addosso di tutto, cade da altezze assurde, sprofonda nei mari più profondi ma non gli succede nulla.
3. Il gusto per le frasi a effetto. Credo ci sia una scuola per sceneggiatori di pellicole “sparatutto” perché – invariabilmente – il buono è anche tanto spiritoso e ha sempre la battuta pronta. Non c’è persona da lui sgozzata o crivellata che non abbia avuto la gioia della frasetta carina come saluto d’addio e anche questo ha una precisa finalità ideologica: il nemico va irriso, mai rispettato. Che poi francamente un presidente degli Stati Uniti che esce da una Casa Bianca semidistrutta, camminando in mezzo ai cadaveri del suo staff, coperto di sangue e con una pallottola in corpo, forse scivolando su intestini e materia cerebrale, come primo pensiero faccia una battuta sull’assicurazione che dovrà rifondere i danni beh… insomma, direi che lascia un po’ a desiderare. Siamo un po’ distanti dal sublime Clint che in un qualche Callaghan entra di soppiatto in un camion dei cattivi e stritola con una mano i testicoli dello sventurato delinquente il quale – invece di divincolarsi o urlare dal dolore – non trova di meglio che dire “ahhhh ma ti avevano visto morire!” e lui replica – sublime – “avevano visto male”.
4. La retorica ideologica. In questo genere di film ci sono dei momenti molto iconici, durante i quali il sistema sembra sul punto di crollare e questo crollo ha anche un aspetto simbolico molto forte. In “Attacco al Potere” è la bandiera crivellata di colpi che lentamente cade dal pennone più alto, mentre sullo sfondo la Casa Bianca è tutta fiamme e fumo… Poi però, quando i cattivi sono tutti morti e l’ordine finalmente ristabilito, ecco – invariabile – il fervorino patriottico. Il presidente che ritornato pienamente presidenziale parla alla Nazione ricordando loro quanto siano fortunati a vivere in America, quanto saldi siano i loro principi e valori morali, quanto perfetto sia il loro sistema di vita e di governo. Dubbi? nessuno. Autocritiche? ma quando mai…
E noi? da noi a parte rarissime eccezioni (Sordi, Tognazzi) la classe politica compare solo in film esplicitamente “di denuncia” o cronachistici (Il portaborse, Buongiorno Notte, Il Caimano…). I nostri politici, soprattutto il presidente della Repubblica o il presidente del Consiglio non compaiono mai come protagonisti di storie all’esterno di un contesto “serio”.
Non ammattiscono, non tradiscono, non complottano, non amano, non scappano…insomma non esistono. E mi chiedo perchè. Voglio dire: perchè descrivere, raccontare e impersonare i vertici dello Stato sia così frequente in altri contesti e così raro da noi? Azzardo una risposta. Da noi manca quel rispetto e quella immedesimazione verso le istituzioni supreme del potere (la Corona Britannica, la Presidenza degli Stati Uniti), che sono un elemento così rilevante nella cultura politica di paesi “forti” come il Regno Unito o gli Usa.
Noi non rappresentiamo il Capo dello Stato o il capo del Governo perchè per la nostra concezione della società essi non esistono, non sono punti di riferimento, sono distanti, incomprensibili, al limite sono un impiccio. La nostra assenza di religione civile e cultura costituzionale, purtroppo, si vede anche da questo.
Marco Cucchini | 29 aprile 2013 |Poli@rchia
PS. All’inizio, nei sottotitoli, Morgan Freeman viene presentato come “Portavoce della Casa Bianca”, cioè una figura di secondo piano dello staff presidenziale. Quando la crisi ha inizio, essendo il presidente e il vice ostaggi dei cattivi, il Portavoce viene insediato come “presidente pro tempore” (Acting President). Perché trasformare un oscuro funzionario come presidente è incomprensibile, ma naturalmente chi ha studiato un po’ di diritto costituzionale americano saprà che il traduttore ha mal tradotto la carica. Lo “Speaker of the House” non è il “portavoce della presidenza” ma il “presidente della Camera dei Rappresentanti” (House of Representative), cioè la terza carica dello Stato, colui che subentra in caso di morte o impedimento sia del presidente, che del vice.