Una Bicamerale tira l’altra. Trent’anni di insuccessi

Una Bicamerale tira l’altra. Trent’anni di insuccessi

denicolacostituzione02/05/2013 – Nel 1983 il tentativo di Bozzi. 14 anni dopo, D’Alema. Il Parlamento ci riprova. Una Convenzione per riformare la Costituzione, ancora una volta.

Si fa presto a dire Convenzione per le riforme. L’assemblea voluta dal premier Enrico Letta per cambiare la Costituzione è un progetto tutt’altro che inedito. Non occorre tornare alla Rivoluzione francese, come pure aveva fatto l’ex segretario Pd Pier Luigi Bersani durante i primi, fallimentari, tentativi di dar vita a un governo. Per riformare la Carta il leader democrat si era ispirato addirittura alla Convention Nationale del 1792, l’assise che più di due secoli fa aveva scritto la Costituzione della nascente Repubblica francese. In realtà per farsi un’idea dell’argomento basta ripercorrere gli ultimi trent’anni di storia italiana.

La media è di un tentativo ogni cinque anni. Tentativo fallito, bene inteso. Capostipite di questa moderna genìa di riformatori è il liberale Aldo Bozzi. Magistrato, ministro dei Trasporti, nei primi anni Ottanta è lui a guidare la prima Bicamerale. Venti deputati e venti senatori, tante proposte e nessun esito concreto.

Il sito internet della Camera dei deputati conserva ancora i dettagli di quell’esperienza. «La Commissione ha tenuto complessivamente 50 sedute plenarie. L’Ufficio di Presidenza ha tenuto 34 sedute, di cui 33 allargate ai rappresentati dei gruppi. All’esame della relazione conclusiva sono state dedicate 14 sedute del plenum della Commissione». Dal 1983 al 1985 si lavora per riformare la Costituzione. Con incredibile modernità i novelli padri costituenti propongono la riduzione del numero di deputati e senatori.

Per superare il bicameralismo perfetto si studia un’interessante escamotage. Fatta salva la funzione legislativa di entrambe le Camere per leggi costituzionali, elettorali, su organizzazione e funzionamento delle istituzioni costituzionali, di bilancio o tributarie, il potere viene esercitato dalla sola Camera dei deputati. Il Senato può partecipare all’iter legislativo, ma solo dopo aver presentato motivata richiesta. Si provano a cambiare anche i poteri del presidente della Repubblica. Abolito il semestre bianco, al capo dello Stato viene dato il potere di sciogliere le Camere fino alla fine del suo mandato (nella recente crisi di governo questa modifica avrebbe aiutato non poco Giorgio Napolitano). Vengono rafforzati i poteri del presidente del Consiglio e istituzionalizzato il Consiglio di Gabinetto che ne coadiuva l’operato. I referendum? Il quorum per l’indizione è innalzato fino a 800mila elettori.

Nonostante le premesse, il risultato è deludente. Alla Bicamerale guidata da Bozzi il Parlamento affida solo poteri consultivi. E così per avviare l’iter legislativo delle riforme è necessario l’intervento dei gruppi politici. «Che allora, come è noto, non raggiunsero un sufficiente accordo in merito» tagliano corto gli annali della Camera.

La politica ci riprova dieci anni più tardi. È il 1992, gli ultimi mesi della prima Repubblica. A guidare il tentativo di revisione costituzionale stavolta è Ciriaco De Mita. Protagonista della politica degli anni Ottanta, già presidente del Consiglio e segretario della Democrazia Cristiana. Ma siccome la Carta si cambia solo con il consenso delle principali forze politiche, sei mesi più tardi gli succede l’ex presidente della Camera Nilde Iotti, esponente Pds. Cresce il numero dei protagonisti: ai lavori della Bicamerale partecipano trenta deputati e trenta senatori. Dopo il buco nell’acqua della precedente esperienza, il Parlamento dota la commissione De Mita di poteri referenti.

Sulla carta i risultati raggiunti sembrano incoraggianti. Stavolta non viene tagliato il numero dei parlamentari, ma la durata della legislatura: da cinque a quattro anni. Viene introdotta una nuova forma di governo “neoparlamentare” «che prevede l’investitura diretta da parte del Parlamento del Primo ministro – si legge sul sito della Camera – attribuisce a quest’ultimo la esclusiva responsabilità sulla nomina e revoca dei ministri, e introduce l’istituto della cosiddetta “sfiducia costruttiva”». Il potere di inchiesta delle Camere viene notevolmente ampliato. Una norma che avrebbe fatto la felicità dei parlamentari grillini: per dare il via alle inchieste è sufficiente la richiesta di un quinto dei componenti di ciascuna Camera.

Nel 1994 la commissione presenta un progetto di revisione costituzionale alle Camere. Resterà l’ultimo atto della seconda Bicamerale. «Le Assemblee dei due rami del Parlamento – si legge ancora oggi negli archivi online di Montecitorio – non hanno peraltro provveduto all’esame del testo approvato per la anticipata conclusione della legislatura». Amen.

La più discussa delle Bicamerali resta quella guidata da Massimo D’Alema. Il segretario dei Ds, accompagnato dai vicepresidenti Leopoldo Elia (Ppi), Giuliano Urbani (Forza Italia) e Giuseppe Tatarella (An) avvia il suo tentativo di riforma costituzionale nel 1997. In un trend ormai consolidato, il numero dei partecipanti aumenta: stavolta la convenzione dalemiana impegna 35 deputati e 35 senatori. Quattro comitati si occupano di altrettanti capitoli: governo, forma di Stato, garanzie e Parlamento. Torna in auge la riduzione del numero dei parlamentari, si ragiona sul semipresidenzialismo. Viene rivista anche la Corte Costituzionale. In corrispondenza di una maggiore attenzione alle realtà locali nasce una “super consulta”. I componenti aumentano fino a venti, cinque dei quali nominati dal collegio dei rappresentanti di regioni, province e comuni.

In realtà non saranno i risultati, peraltro mai raggiunti, a consegnare la Bicamerale di D’Alema alla storia. Quanto piuttosto quell’immagine di inciucio – agevolata da paralleli vertici modello “patto della crostata” – che ne macchierà indelebilmente il ricordo.

Quindici anni più tardi, il Parlamento ci riprova. Grazie all’impegno del premier Enrico Letta nelle prossime settimane prenderà il via la Convenzione per le riforme, il quarto tentativo. Un progetto a tempo: tra diciotto mesi il presidente del Consiglio valuterà i progressi raggiunti e deciderà se andare avanti. Un’iniziativa battezzata da una curiosa coincidenza: a guidare la Convenzione si è già proposto Silvio Berlusconi. Il leader del Pdl che nel 1998 rovesciò il tavolo del confronto affossando, di fatto, la riforma costituzionale.
Fonte: linkiesta.it | Autore: Marco Sarti

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