L’Isola Felice

L’Isola Felice

Vera CaskavskàLa signora con quella improbabile cofana bionda è Vera Caskavskà. Vera è una ginnasta cecoslovacca e aveva appena conquistato l’argento olimpico a Città del Messico 1968, uno dei pochi argenti in una vita e in una carriera costellata da tanto di quell’oro da far invidia a Fort Knox…

Vera sta tenendo la testa basta e guarda in direzione diversa da quella della signora al suo fianco, un’atleta sovietica che aveva appena vinto la medaglia d’oro. Testa bassa e sguardo distolto non sono una villania, ma una silenziosa, dignitosa protesta contro l’Unione Sovietica che aveva da poche settimane invaso la Cecoslovacchia per mettere fine alla “primavera di Praga”. E lei non sa che per quella protesta discreta, durata meno di un minuto, sarebbe vissuta praticamente prigioniera per i successivi 12 anni, con la carriera troncata e l’impossibilità di viaggiare o di prendere parte a eventi pubblici di qualsiasi natura. Una morta civile insomma. Civile e praticamente dimenticata, perché dei giochi del 1968 l’immagine iconica è quella del pugno alzato e guantato di Tommy Smith e John Carlos in favore della lotta dei neri americani per i loro diritti civili.

Da quando sono stati ripristinati i giochi – nel 1896 – la Politica ha sempre messo il suo dannato becco, influenzando talvolta nel bene, altre volte nel male, lo svolgimento delle competizioni. I Greci – che erano gente civile – in occasione delle Olimpiadi sospendevano le guerre e si dedicano a lanciare giavellotti, dischi o fare il salto in lungo e questo per circa 1000 anni. Poi arrivò il Cristianesimo, mise fine a tutto questo celebrare gli dei “falsi e bugiardi” e di Olimpiadi non si parlò più fino a fine XIX secolo e quando i giochi ripartirono beh, ormai eravamo in pieno delirio nazionalista e quindi vincere o perdere non era spesso un fatto personale, ma politico. E questa tendenza a politicizzare lo sport, a riempirlo di contenuti che gli sono estranei, si è estesa man mano a tutte le principali manifestazioni sportive, non solo alle occasioni olimpiche.

In questi giorni si stanno tenendo i Mondiali di Atletica Leggera a Mosca e da molte parti giunge l’invito a boicottarne la visione, questo per protesta contro la legislazione medievale che nella dittatura di Putin è stata adottata contro l’omosessualità, rendendo le norme giuridiche russe le più omofobe e retrive del Mondo, ad esclusione dei paesi dove è adottata la Sharia (perché al peggio non c’è fine e se c’è da distinguersi per brutalità, il fanatismo islamico è sempre pronto a dare un contributo). La brutalità della legislazione russa e il substrato culturale che la legittima sono – alla luce di un uomo che vive in un Paese dell’Europa occidentale nel XXI secolo – assolutamente da respingere, ma il boicottaggio è un’altra cosa… E a questa sono contrario.

Boicottare significherebbe non partecipare. Quali sarebbero i vantaggi? Certo, la legislazione non verrebbe abolita e certo non ci sarebbe alcun indebolimento del consenso attorno al regime autoritario. I boicottaggi, esattamente come gli embarghi, non servono a molto. Anzi, probabilmente non servono a nulla… Il boicottaggio africano delle Olimpiadi di Montreal 1976 non hanno minimamente alterato il regime africano di apartheid, il boicottaggio americano di Mosca 1980 non ha inciso nella politica sovietica verso l’Afghanistan e il boicottaggio sovietico di Los Angeles 1984 è stato solo una patetica rappresaglia sportiva, senza nessuna conseguenza politica.

Andare, invece, può essere molto più utile. L’immagine simbolo di Berlino 1936 è Hitler furibondo che lascia lo stadio per non dover fare le congratulazioni al nero Jesse Owens mentre – come ricordato – quelle di Città del Messico fu il pugno alzato e guantato delle “pantere nere” Smith e Carlos. Fuori dalle Olimpiadi, il grande tennista afroamericano Arthur Ashe partecipò al torneo di Johannesburg – che si teneva in un circolo dove i neri non erano ammessi – raggiungendo per due volte la finale. Oggi il principale torneo tennistico sudafricano si tiene sempre a Johannesburg in un impianto denominato “Arthur Ashe Tennis Center” e chissà, forse se Ashe avesse “boicottato” gli internazionali del Sud Africa, magari oggi si chiamerebbe in un altro modo… magari oggi nessuno si ricorderebbe i bianchi afrikaneer costretti ad applaudire le molte vittorie e le molte magie di Ashe su quel cemento vietato a tutti i neri sudafricani…bertolucci-panatta-tennis-cile_300x173

Anche noi abbiamo fatto la nostra buona figura, quando è stato il caso. Nel 1976 la sinistra chiacchierona non voleva che la nostra nazionale di tennis andasse a Santiago a giocarsi la finale di Coppa Davis con il Cile, questo per non legittimare la dittatura di Pinochet e si alzò il solito polverone, che venne deciso anche quando – con riservatezza – Enrico Berlinguer fece sapere ad Adriano Panatta che era meglio che l’Insalatiera andasse a Roma piuttosto che a Santiago e che questa era anche l’opinione di Luis Corvalan, segretario del Partito Comunista Cileno, in esilio in Europa. Andammo quindi a giocare a Santiago ma – su idea di Panatta – non giocammo con la tradizionale maglietta bianca, ma con una maglia rosso sangue, per protesta contro la brutalità della dittatura, immagine che fece il giro del Mondo e provocò vivaci proteste da parte del governo cileno nei confronti del governo italiano che non aveva messo le briglie ai propri giocatori.

E poi la Politica deve restare fuori dallo sport per rispetto degli sportivi. Non serve ricordare l’orrendo massacro di atleti israeliani a Monaco 1972, così come non serve ricordare la crudeltà dei regimi comunisti est-europei che imbottirono di droghe i propri atleti perché dovevano “vincere per il Comunismo” creando dei mostri. Bisogna invece ricordare che la gran parte delle persone che partecipano a manifestazioni come i giochi Olimpici o i Mondiali di Atletica non sono ricchi mocciosi viziati e cerebrolesi come i calciatori. Sono persone semplici, tenacemente aggrappate a un sogno e che lavorano senza sosta ogni giorno per 4 anni in attesa che vengano quei 10 secondi che possono valere tutta quella fatica e tutte quelle privazioni. Spesso senza nessuna riconoscenza da parte dei Paesi da dove provengono… Chi pensate – ad esempio – che abbia più gloria e denaro in Italia? il miglior martellista o la peggior riserva di una squadra di calcio di serie C? Sono persone che non meritano di veder sfumare anni di silenzioso lavoro e di sacrifici quotidiani diventando vittime di questioni che con lo sport non hanno a che fare…

E allora, si partecipi ai Mondiali, si dia il meglio e speriamo di rivedere il coraggio della Caskavskà, di Smith e Carlos, di Owens, di Ashe, di Panatta o dei tanti campioni coraggiosi come persone più che come sportivi, dei quali non sono riuscito a parlare… Chi lo sa, magari potremmo tifare per Nick Symmonds, l’800metrista USA che sul suo blog ha scritto che in caso di vittoria “dedicherà la medaglia ai propri amici gay e lesbiche”. Cos’è meglio? che Nick Symmonds stia a casa a leggere Sport Illustrated o che corra a Mosca e vinca, facendo la sua dedica “agli amici gay e lesbiche”?

USA e URSS non hanno mai combattuto la temuta III Guerra Mondiale. Il conflitto più duro, più vero, tra le due superpotenze è stata la finale olimpica di basket del 1972, quando la squadra sovietica ruppe fragorosamente la serie di successi infiniti del “dream team” statunitense. La Politica strumentalizzò quella partita ma essa fu quello che lo sport – tranne il calcio – normalmente sa essere: scontro duro, ma leale, rispettoso dell’avversario, civile.

Insomma, il sogno (un po’ ingenuo, un po’ infantile) di un’Isola Felice.

Autore: Marco Cucchini

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