03/10/2013 – Perché in Italia, al contrario che in Germania, Francia, Spagna o l’Inghilterra, non riesce a nascere una credibile formazione liberal-conservatrice. L’analisi degli storici.
È la solita illusione o, questa volta, dal tramonto del ventennio berlusconiano nascerà finalmente quella destra liberal-conservatrice di stampo europeo auspicata da tanti, in Italia e all’estero, capace di trasformare il nostro sistema politico in una normale democrazia occidentale? Quella normale democrazia in cui il confronto tra gli schieramenti non diventi motivo di una guerriglia permanente tra nemici irriducibili e una sconfitta politica non venga giustificata dall’accusa di «un colpo di Stato».
Le speranze di tutto l’establishment internazionale e della grandissima parte di quello di casa nostra, certamente, non sono molto confortate dalle esperienze fallimentari di recenti e meno recenti tentativi di costruire in Italia un partito del genere. A partire dalla meteora di Mario Segni, nell’ultimo scorcio del secolo passato, per finire al deludente esito elettorale di quello che avrebbe potuto essere, se l’avesse voluto anche lui, il vero leader della nuova destra liberal-conservatrice, Mario Monti.
Perché è così difficile, da noi, copiare quel modello di partito che in Germania, in Francia, in Spagna, in Inghilterra si alterna alla sinistra, senza alcun dramma, nella guida dei governi? Perché, se ci rivolgiamo al nostro passato di Stato unitario, non troviamo mai, in realtà, una formazione politica con i tratti caratteristici e peculiari delle destre europee? È la nostra storia che ci condanna a questa anomalia o sono i vizi e le debolezze delle nostre classi dirigenti moderate a impedire un parto così agognato?
«Il nostro Paese ha pagato un prezzo molto alto per la scomparsa del liberalismo, ucciso dal fascismo – osserva Giovanni De Luna – e la vera questione italiana del ’900 è proprio questa, altro che la questione comunista». «Forse i funerali di Ruffini, nel ’34, alla presenza di Croce, Bergamini ed Einaudi – prosegue lo storico torinese – furono la plastica rappresentazione di quel tragico seppellimento. Così, è sempre mancata, da noi, una forte e seria dialettica politica tra schieramenti, fino all’ultima deriva, quella attuale, che pretende di rappresentare l’ossimoro liberalismo-populismo».
Pure Alessandro Campi, intellettuale che si è anche impegnato personalmente nel tentativo di aiutare la nascita di un partito conservatore di tipo europeo, condivide la tesi del fascismo come killer del liberalismo italiano, «anche perché ha cercato di inglobarlo, inducendo persino Gentile all’illusione di un partito capace di portare a compimento l’epopea risorgimentale». Piuttosto sconsolatamente, Campi non crede che una trasformazione dell’attuale destra italiana possa nascere in una fase d’emergenza, alla vigilia di uno scontro elettorale, come soluzione tattica. «Ci vuole un progetto costruito nel tempo e un vero radicamento sociale. Non la si può costruire per puntellare Letta o per una disputa personale, come nel caso Fini».
Lo scetticismo prevale pure in Emilio Gentile, l’allievo di Renzo De Felice autore di importanti studi sull’Italia del Novecento. «È vero – dice lo storico romano – che in Italia un partito liberal-conservatore di massa non c’è mai stato. Anche perché bisognerebbe, innanzi tutto, distinguere i due termini di liberale e conservatore e, poi, perché, fino al secondo dopoguerra, non c’è stato il suffragio universale. Forse, sarebbe potuto nascere dal Partito popolare di Sturzo, ma il problema, da noi, è stata la presenza di un forte cattolicesimo, di fronte al quale si era sempre al bivio tra clericalismo e un anticlericalismo alla destra storica.
La Dc, in effetti, ha cercato una via liberale per risolvere questo nodo, ma quel partito è stato un coacervo di tendenze diverse, un sistema di potere tenuto insieme dall’anticomunismo. L’Italia ha subìto processi traumatici che, altrove, si sono potuti assorbire in secoli, fino a quello attuale, il berlusconismo. Una strana destra che ha parlato del trinomio Dio, patria e famiglia, e ha praticato un misto di libertinismo, reazione e anarchismo, con la sola capacità personale del capo di tenerli uniti».
Al carisma, in effetti – una caratteristica del leader che, nella politica attuale, in tutto il mondo, è diventata condizione indispensabile del successo – viene attribuita molta importanza da parte degli studiosi della realtà contemporanea. Al suo deficit, nella classe dirigente moderata italiana, molti imputano la difficoltà di far nascere dal berlusconismo un partito conservatore di stampo europeo.
Anche perché, come osserva Giovanni Orsina, professore alla Luiss di Roma, nell’elettore moderato italiano «c’è una componente di protesta, antistatalista, che lo rende psicologicamente anarchico e sociologicamente conservatore». Un profilo, che richiama alla memoria personaggi come Prezzolini o Montanelli, al quale non si può offrire l’immagine algida di un Mario Monti. «Ci vorrebbe – ammonisce Orsina – un leader che dia a quei ceti un po’ di passione, un po’ di immaginazione e un futuro di speranza».
Non si può pensare, insomma, che quell’Italia soggiogata da Berlusconi per vent’anni possa, quasi di colpo, assomigliare all’elettorato della Csu tedesca, né che dalla nostra classe dirigente moderata spunti improvvisamente il profilo di una Merkel. Questo non vuol dire una condanna perpetua all’anomalia in Europa, ma serve solo a far capire agli italiani che avranno bisogno di molta pazienza e, magari, di un po’ di fortuna.
Autore: Luigi Spina | Fonte: lastampa.it