19/10/2013 – Per ragionare sulla cura, bisogna prima diagnosticare la malattia. E qual è la malattia della quale soffre il Partito Democratico? In realtà, temo siano più di una, ma tra molte direi la totale assenza di coesione interna, di fiducia reciproca (non solo tra leader, ma a cascata tra militanti) e di una condivisione reale di principi e valori.
Il partito è diviso, attraversato da continue lotte di potere e ininterrotte campagne elettorali interne. Primarie 2007 – 2009 – 2012a – 2012b – 2013… 5 consultazioni in 6 anni assomigliano un po’ troppo ai cicli elettorali della fase terminale della Repubblica di Weimar e sempre meno a quello strumento di grande innovazione politica e democrazia interna che pure erano all’inizio.
L’assenza di fiducia e di coesione genera poi ulteriori problemi. Il partito è ingolfato da organi collegiali che non contano nulla e da garanti che non garantiscono, con la conseguenza che non si adottano mai decisioni definite su temi concreti. Inoltre, poiché la sola legge che conta è quella del “clan”, tutte le regole interne – dallo Statuto in giù – sono ignorate o manipolate e la sola sede decisionale con una qualche efficacia è il “caminetto” dei leader. La cena a due. L’incontro riservato. Tutto quello, cioè, che rende meno democratico il Partito Democratico.
Se questo stato di cose servisse per lo meno a produrre un minimo di proposta politica condivisa o a mietere successi elettorali si potrebbe – forse – passarci sopra. Ma, a fronte di una buona tenuta del quadro locale, a livello nazionale le elezioni vengono costantemente perse oppure, quando va bene, non vinte. Come nel 2006 o nel 2013.
Pertanto, un’inversione di marcia è non solo doverosa, ma ormai necessaria, perché il Partito Democratico (e con esso l’intero centrosinistra “costituzionale”) non potrebbe reggere un’altra serie di flop e choc come quella del bimestre febbraio-aprile 2013.
Le vie d’uscita possono essere diverse, ma per me una è fondamentale: l’abbandono della competizione elettorale su lista in favore di una qualsiasi opzione articolata su collegi uninominali, fosse pure con riparto proporzionale, come avveniva nel sistema elettorale provinciale. Il dibattito sulla legge elettorale è costantemente viziato dal tema della stabilità, la quale è virtù politica e non tecnica. Si può avere governi stabili in assenza di normative elettorali che li agevolano e governi instabili, malgrado l’ingegneria istituzionale che si può inventare, come il crack del governo Berlusconi IV ha dimostrato.
A fianco del tema della stabilità, però, ritengo parimenti importante quello della rappresentanza e – ad esso collegato – dell’accountability dell’eletto nei confronti del cittadino elettore. L’attuale criterio di definizione delle liste elettorali è pensato per piacere non tanto agli elettori quanto all’interno del partito. Le dinamiche con le quali si mettono in fila i nomi, infatti, sono tutte finalizzate alla “pacificazione” interna. In una logica di rappresentanza “specchio” si candidano, infatti, individualità rappresentative di genere, di orientamento sessuale, di appartenenza a minoranze linguistiche, di espressione territoriale, sociologica o professionale, nonché delle diverse componenti interne.
Autore: Marco Cucchini