08/11/2013 – Pubblichiamo qui di seguito un articolo apparso sul sito lsdi.it, Libertà di stampa, diritto all’ informazione, un gruppo di lavoro nato dall’iniziativa di soggetti impegnati a vario titolo nel mondo dell’informazione.
Qualche giorno fa assieme ad Andrea Bettini della Tgr Rai abbiamo iniziato ad occuparci del binomio media sociali e politica.
In particolare l’ inchiesta promossa dal portale web della Testata Giornalistica Regionale Rai e condotta da Bettini si è occupata di verificare il gradimento su Facebook e Twitter dei Presidenti di regione italiani.
Ora abbiamo sentito il parere di un sociologo, il professor Carlo Sorrentino, pro-rettore dell’Università di Firenze e ordinario presso il Dipartimento di scienze politiche e sociali dell’ateneo fiorentino.
Lsdi – Nell’edizione 2013 di Digit che si è svolta il 16 e 17 settembre scorso a Firenze abbiamo provato ad affrontare in un dibattito pubblico la questione: social nella politica, ma anche marketing; nel panel intitolato :<< I like non sono voti né propensioni all’acquisto >> Come li dobbiamo considerare. Che cosa sono? Lei professore come la vede?
Carlo Sorrentino: Secondo me definiscono l’ambito di interesse. Così come veniva fuori anche nell’articolo di Bettini. In realtà se io seguo questa persona sul web, non è detto che io stimi questa persona, ma questa persona ricopre un ruolo importante per me, per la mia vita, per la mia identità e addirittura può ricoprire un ruolo ancora più determinante se io sono in contrasto con quello che dice e fa e per questo la voglio seguire d’appresso, marcare stretto. E’ un modo per controllare il suo operato. Il valore principale dei social media sia nel marketing che più espressamente in sociologia della comunicazione si chiama “leader d’opinione”.Io seguo questa persona o questa istituzione perché la ritengo in qualche modo interessante per orientare il mio modo di pensare. Che non signfica obbligatoriamente che la penso come lui. Può essere addirittura l’opposto o comunque io seguo la persona il cui profilo può essere rilevante per la mia vita quotidiana. Sottolinea una qualche menzione di interesse.
Altra cosa invece è quando il “like” si fa nei confronti di un’azienda o di un bene, un oggetto; allora è evidente che c’è una maggiore adesione di tipo valoriale: io seguo quell’azienda, quel prodotto perché sono interessato, perché ha a che vedere con il mio stile di vita e quindi definisce una propensione e favorisce un comportamento. Un esempio per chiarire: io posso seguire su tutti i social il brand Ferrari, ma so bene che non diventerò mai un acquirente Ferrari. E’ qualcosa di più vago di una propensione all’acquisto, è un segnale di interesse.
Lsdi: Non diventerò mai acquirente Ferrari, perché non sarò mai abbastanza ricco, però il web e in particolare i social mi permettono di avere una maggiore prossimità con l’azienda in questione e allargando il discorso anche con l’uomo politico, l’amministratore pubblico nel caso dei governatori.
Carlo Sorrentino: Il termine è centrato: la prossimità. Io posso volere la prossimità per mille motivi. Mi interessa essere il più vicino possibile al mio sindaco o al mio governatore non necessariamente perché lo voti, ma perché amministrano i luoghi dove vivo, dove vanno a scuola i miei figli, e quindi voglio controllare il più possibile il loro operato. In questo caso la prossimità ha a che vedere, e questo la rete lo rende sempre più evidente, con una capacità di partecipazione che è anche in qualche modo controllo. Per quanto riguarda invece i prodotti questo concetto di prossimità si realizza in vari altri modi. E’ vero che difficilmente potrò comperare una Ferrari, ma è anche vero che esistono tutta una serie di gadget e prodotti diversi a marchio Ferrari. L’esistenza di un marchio Ferrari su tutta una serie di altri prodotti serve anche proprio all’azienda per dire: << io sono comunque un soggetto fortemente seguito perché ho tutta una serie di valori che mi sono riconosciuti e io cerco di declinare questi valori non soltanto nella costruzione di automobili di lusso ma anche nella definizione di tutta una serie di oggetti che io associo a me e che quindi chi è prossimo a me tenderà ad apprezzare >>.
In questo modo il marchio automobilistico diventa un vero e proprio “brand” universalmente riconosciuto e fidelizza attorno a se non solo una ristretta comunità di possibili acquirenti di automobili di lusso ma una cerchia molto più vasta di ammiratori Ferrari. Un’azione di proselitismo, che a volte può essere eccentrico, rispetto alle azioni intraprese. Pensiamo ad esempio alle relazioni che alcune aziende hanno con il mondo del no-profit. Tutto nasce come un’azione di comunicazione sociale o meglio pubblicità sociale. E invece sempre più sta diventando per le aziende un processo attraverso il quale declinare l’inseme dei propri valori e la propria coerenza rispetto agli oggetti (intesi anche come oggetti valoriali) che un determinato brand deve comunque gestire. La capacità, quindi, di ridefinire e di allargare il concetto di responsabilità sociale d’impresa che secondo me la rete favorisce. Un brand mondiale che si muove anche nel no profit seguendo una direzione coerente con la propria identità.
Lsdi: Tornando alla politica questo dialogo non mediato fra amministratori e cittadini attraverso appunto i social media quanto incide positivamente sulla trasparenza o quanto invece si traduce in mera propaganda?
Carlo Sorrentino: Io credo ci si trovi difronte ad un problema dinanzi al quale si trovò il primo Obama quando dovette tradurre la comunicazione elettorale in comunicazione istituzionale. Quando dopo essere stato eletto Obama si trovò a dover dare sostanza a tutta quella enorme mole di comunicazione fatta sui social, si trovò in difficoltà. Perché dovette tradurre il linguaggio tutto sommato banale della comunicazione elettorale, teso a portare voti e nient’altro, nella comunicazione istituzionale molto più complicata perché ha a che fare con organizzazioni complesse con interessi legittimi, con la capacità di mediazione, e altro ancora. Infatti lo stesso Obama è stato a lungo criticato per la difficoltà manifestata nell’attuare questa traduzione fra comunicazione elettorale e istituzionale. Ed ancora oggi la Presidenza americana ha difficoltà nell’essere efficace dal punto di vista della propria comunicazione istituzionale sui media sociali.
Quella in cui oggi in Italia ci troviamo è la stessa difficoltà a mio avviso. Governatori, sindaci o comunque leader politici sono più o meno bravi a fare comunicazione della leadership, comunicazione del personaggio politico. E questo crea dei problemi. C’è una riflessione in corso su questo concetto presso la maggior parte delle amministrazioni pubbliche italiane: quando si parla sui social in nome e per conto dell’amministratore o dell’uomo politico, è la componente pubblica che comunica o la persona? I problemi che vengono a crearsi mi sembrano numerosi e per il momento non risolti. Nel senso che finora mi sembra che più che altro questi soggetti politici, anche quando ricoprono cariche istituzionali come si vede nell’inchiesta realizzata da Bettini per la Tgr, non hanno molto chiara la propria posizione. Per il momento loro si limitano a fare volume di comunicazione che riporti al personaggio politico. Se davvero vogliamo integrare questi mezzi, ed usare i social per dare maggiore capacità partecipativa ai cittadini. Bisognerà rispondere con serietà a questo tipo i domande.
Per ora mi pare di poter dire che in realtà anche su questi profili social di questi soggetti non c’è molta interattività; si tratta di una comunicazione “top down” anzi pensando soprattutto a twitter, una comunicazione in cui il tweet sostanzialmente mi sostituisce il sound bite che l’uomo politico faceva nella conferenza stampa o nelle due battute quando usciva dalla riunione o dall’incontro. Nel 2000 è stata approvata la legge 150 che distingueva il ruolo del portavoce da quello dell’ufficio stampa e dall’URP. Un tentativo molto complesso e mai del tutto attuato di distinguere la comunicazione politica dalla comunicazione istituzionale. Nel momento in cui provavamo a mettere a punto questa delicata normativa è arrivato il web che ha mandato tutto all’aria. In rete e poi sui social convergono le attività di tutti questi soggetti e bisogna trovare delle metodiche che permettano di ridefinire quando si sta facendo sia come comunicazione istituzionale, sia come comunicazione politica. Per ora questa distinzione non è molto presente perché prevale l’interesse del politico a fare comunicazione elettorale e politica.
Lsdi: Come mai nel nostro Paese i processi di democrazia digitale già sperimentati con successo in molti paesi del mondo a partire dal 1989 sono così lontani?
Carlo Sorrentino: In Italia ha prevalso a lungo una grande commistione tra generi. Politica e giornalismo, politica e istituzioni. C’è stato un dominus assoluto: la comunicazione politica partitica, e nel momento in cui negli ultimi 10-15 anni si è provato a fare chiarezza fra comunicazione politica e comunicazione istituzionale sono arrivati dei nuovi ambienti comunicativi che rendono ancora più problematico e confuso distinguere il messaggio. Quello che è ancora embrionale in Italia forse più che altrove, è in che modo riuscire ad essere realmente convocativi. Noi tutti diciamo sempre che il web e i social media sono ambienti di comunicazione orizzontale però fra i leader politici e le istituzioni vengono usati ancora in modo fortemente verticale. La maggior parte di noi anche attraverso i social, tranne alcuni casi, partecipa alla discussione come seguace non come produttore di informazione. Ancora poco si riesce ad incidere, a partecipare realmente nel gioco democratico.
Però quello che si è fatto non è poco, perché ora indubbiamente c’è la consapevolezza che esistano gli strumenti di una maggiore trasparenza potenziale e questo rende tanti attori molto più guardinghi. Vediamo il caso Cancellieri. C’è una comunità che dimostra che oramai ci sono gli strumenti per far si che l’opinione pubblica sia sempre più incisiva e controllante, esigente. Una serie di cose che prima si davano per scontate ora siamo in grado di influenzarle in modo diretto. Tutto questo induce forzatamente a comportamenti un poco più virtuosi nei soggetti pubblici. C’è una trasparenza potenziale. Come se, esemplificando, ogni condomino di un palazzo fosse costretto a dover dichiarare i propri redditi agli altri inquilini. Se avessi dichiarato 15.000 euro mi vergognerei a farmi vedere in giro con una Ferrari o a far sapere in giro che vado tutti gli anni tre mesi in vacanza alle Maldive. Perché so che c’è un minimo di controllo sociale. La stessa cosa per i soggetti pubblici avviene attraverso la rete. Io soggetto pubblico so che sono inevitabilmente sempre più visibile e quindi devo essere attento a come gestisco questa mia visibilità. Bisogna indurre i soggetti pubblici alla trasparenza.
La visibilità è una costrizione delle società democratiche , se sono un soggetto pubblico sono costretto ad essere visibile perché sono controllate le mie azioni 24 ore al giorno. Il web rende tutto questo ancora più evidente. Quello che è più difficile è riuscire a renderlo anche convocativo. Non soltanto il luogo in cui io mi metto in vetrina, ma anche il luogo, e il web lo potrebbe essere ma è difficile gestirlo, anche il luogo dove io raccolgo mozioni, posizioni, punti di vista. Si tratta di una disarticolazione delle funzioni che una volta avevano i partiti: raccogliere e canalizzare la domanda politica che i vari portatori di interesse aveva in merito alle questioni più disparate. Oggi questa cosa non ha più bisogno della mediazione dei partiti. Attraverso il web si potrebbe fare ma ancora non ci sono i meccanismi perchè questa partecipazione sia reale.
Lsdi: Nei prossimi anni saranno i cittadini a scrivere il programma di governo su un’agenda elettronica e vincerà chi saprà utilizzare al meglio la potenza del web. Tu come la pensi?
Carlo Sorrentino: Il limite della democrazia digitale è che postula tutti cittadini nazionali e competenti. Invece non lo siamo e lo saremo sempre meno. Proviamo a leggere la legge Finanziaria appena licenziata dal Governo e cerchiamo di capirci qualcosa. Cerchiamo egoisticamente di capire come volgerla al nostro interesse di artigiani, oppure commercianti, oppure semplici cittadini. Anche volendo solo cercare di capire quello che più conviene ad ognuno di noi è praticamente impossibile comprenderla.
Il punto è: quali nuove forme di mediazione poter andare a trovare? Oggi potenzialmente tutti i cittadini con il web possono accedere, dire la loro etc.etc. Ma perché questo ancora non funziona? Perché c’è bisogno di strutturare altri luoghi della mediazione che non saranno più i partiti, o i notabili di una volta, o ancora le corporazioni così come le conosciamo; cosa saranno però ancora non ci è chiaro. Per ora noi vediamo che le cose che hanno ancora maggior fortuna sono delle microlobbies, assolutamente meritorie, ma che sono portatrici di interessi molto specifici. Bisogna invece scoprire come usare il web come luogo di convocazione che ridefinisca nuovi sistemi di mediazione.
Fonte: lsdi.it