Era la Francia del 1917. E anche allora gli effetti di un sistema politico-istituzionale progressivamente inadeguato rispetto al rapido mutamento dei tempi si avvertiva con crescente chiarezza. La prima guerra mondiale, infatti, aveva messo plasticamente in luce tutti i difetti del regime parlamentare della III Repubblica che, nato nel 1871 tra il desiderio di una piena repubblica e le aspirazioni di una restaurazione monarchica e definitivamente consolidatosi soltanto a partire dal biennio 1875-1876, si era via via incancrenito divenendo sempre più inconcludente e parolaio nel suo farsi, sostanzialmente strutturato su élites politiche inamovibili, totalmente auto-centriche.
Così, in una crescente stabilità nell’instabilità, nella Terza Repubblica vi erano sempre più governi instabili di durata semestrale a fronte, appunto, di élites stabili in parlamento (e nel paese) di durata trentennale.
A quell’epoca, un giovane consigliere di stato, Léon Blum, nato a Parigi l’anno successivo all’istituzione della Repubblica, poliedrico amante del diritto come della letteratura, amico di scrittori come André Gide nonché (pure) brillante critico letterario e teatrale in quella che poi venne chiamata come la parigina “Belle Epoque”, aveva accettato – anche sull’onda della profonda influenza esercitata su di lui dal segretario del Partito socialista Jean Jaurès (tra i più energici difensori di quel Alfred Dreyfus che toccava con forza pure le corde del cuore del laico Blum di famiglia ebraica) – di entrare nel 1916 al governo come capo di gabinetto di Marcel Sembat, allora ministro socialista dei Lavori pubblici del governo Viviani.
Fu una scelta decisiva per l’appena quarantenne Blum. E tuttavia lo fu anche per la Francia intera.
Infatti, se quella breve esperienza cambiò, definitivamente, la sua vita, trasformando quel fine giurista dagli occhi aguzzi (e gli occhialini puntati sul naso) in un attento analista delle dinamiche politiche, di lì a poco Léon Blum scelse di candidarsi, divenendo un politico tout court, segnando così la storia francese fino a divenire segretario del Partito socialista e poi, dopo la vittoria elettorale del 1936, il primo ministro della prima alleanza fra tutte le forze di sinistra contro l’imminente pericolo fascista, passata alla storia come il cosiddetto Fronte popolare. Successivamente arrestato dal governo di Vichy nel 1940 e internato dai nazisti in Germania, con la liberazione divenne il presidente del consiglio di quel governo di transizione, tra dicembre 1946 e gennaio 1947, che segnò l’avvento della quarta Repubblica e il definitivo ritorno alla democrazia.
Di quella svolta politica, prima che umana, tra il già e il non ancora di un uomo di tal fatta, abbiamo un prodotto, un insieme di pensieri, poi consolidati in un volume che è una delle letture più lucide, concrete ed efficaci, dei bisogni e delle esigenze di chi crede nel governare di qualità.
Si tratta delle Lettres sur la réforme gouvernementale. Un insieme di contributi scritti tra il dicembre del 1917 e il gennaio del 1918 su la Revue de Paris, rivista diretta da Ernest Lavisse e Marcel Prevost, che poi vennero raccolte in un volume del 1917 (e successivamente ripubblicate nel 1936 in volume, e oggi raccolte nei sette volumi di scritti di Léon Blum).
Due erano le storture da sanare per Léon Blum. Da un lato la caduta progressiva di autorevolezza di un parlamento sempre più assemblearista, solipsistico, sordo e cieco rispetto ai bisogni sociali, incapace di fare definitivamente le riforme necessarie per salvare un regime politico-parlamentare non razionalizzato. Dall’altro l’avere un governo debole, con un presidente del consiglio mero garante dell’accordo tra i partiti, privo del potere sostanziale (oltre che formale) di guida dell’esecutivo, non di rado vittima di decisioni esterne alle quali – nel tempo di un paese in piena crisi in ragione della Prima guerra mondiale – poteva opporre esclusivamente l’uso di poteri straordinari come la decretazione d’urgenza (che nasce appunto in quel periodo per fare fronte all’esigenza di un dover decidere rapidamente).
La soluzione si fondava sulla necessità di rivalutare la figura del capo del governo, sia come leader del governo sia come leader della maggioranza parlamentare.
Per Blum il presidente del consiglio doveva essere colui che dirigeva «il lavoro del parlamento, cioè il lavoro politico»; doveva «dirigere il lavoro dei suoi ministri, cioè il lavoro amministrativo, dirigerli singolarmente e nel loro insieme, poiché è a lui che compete di unirli e coordinarli». Il presidente del consiglio doveva essere come «un monarca – un monarca a cui furono tracciate in precedenza le linee di azione – un monarca temporaneo e permanentemente revocabile, che possiede nonostante ciò, durante il tempo nel quale la fiducia del parlamento gli dà vita, la totalità del potere esecutivo, unendo e incarnando in sé tutte le forze vive della nazione».
Tuttavia, per evitare che questo monarca si trasformasse in tiranno, il presidente del consiglio avrebbe dovuto essere individuato, naturalmente, nel leader del partito della maggioranza di governo, saldando così il governo alla maggioranza parlamentare e rendendo più difficile una crisi del gabinetto che non corrispondesse anche a una crisi della maggioranza poiché l’instabilità ministeriale poteva essere risolta soltanto modificando «les méthodes de travail, les instruments de travail». A quel presidente del consiglio, d’altronde, si chiedeva d’avere «costantemente le mani sul timone, e la mappa e bussole sotto gli occhi», controllando il gioco combinato degli ingranaggi che legano governo e parlamento i cui «les battements isochrones concourent ou devraient concourir à la même fin», cioè la governabilità.
Suona familiare, no? E lo è. Molto. D’altronde, Blum cerca di portare la forma di governo parlamentare francese della Terza Repubblica, inefficace, improduttiva, galleggiante, lì dove tutti coloro che partono da lido parlamentare puntano ad arrivare, ossia a quel modello di democrazia bipolare e dell’alternanza rappresentata dal modello Westminster che, oggi, pur con le sue difficoltà, si mostra ancora come il modello migliore per chi non ha il coraggio – che sempre i francesi hanno avuto poi grazie a De Gaulle – di creare istituzioni ad investitura popolare diretta rigenerando, al tempo stesso, sia le istituzioni sia a maggior ragione i partiti politici in forte crisi di rappresentanza.
Quale lezione dunque per la cultura democratica – oltre che per il costituzionalismo moderno – dalle parole di Blum? Che i modelli democratici per rimanere tali, per difendersi dalle sfide del populismo e dell’antipolitica, sono chiamati continuamente ad aggiornarsi, tentando di coniugare il tempo della decisione con quello della riflessione, nell’obiettivo – che anche in Italia, ormai, appare sempre più condiviso – che, da sempre, crisi e riforme stanno insieme e che a maggiore efficacia e maggiore responsabilità richiesta alla politica non possa non corrispondere davvero una migliore capacità del circuito governo-parlamento di farvi fronte.
Autore: Francesco Clementi | Fonte: europaquotidiano.it