04/12/2013 – Leggete un po’ in giro le “recensioni” nei confronti dei candidati alla segreteria del PD dopo il dibattito di venerdì scorso una critica è apparsa ricorrente nei confronti di Gianni Cuperlo: non rispetta i “tempi televisivi” perché aveva la tendenza a sforare i 90 secondi che venivano concessi per rispondere alle domande del conduttore.
Sono tanti o pochi 90 secondi? e 140 caratteri di Twitter? quelli sono tanti o pochi? Perché sono questi i tempi e i confini della politica quotidiana e su questo ci tocca riflettere. Nel suo saggio “Videopolitica” (1989) Giovanni Sartori notava come nell’arco di pochi anni i c.d. “sound bite” (frasi a effetto) dei politici americani siano passati da 45 secondi a 10 e come questo elevato grado di genericità renda le elezioni “sistemi d’azzardo ad altissimo rischio disselettivo”.
90 secondi per certi versi riescono quindi ancora a consentire l’articolazione di un concetto complesso, almeno all’apparenza. Però sono comunque pochi per una analisi realmente profonda. E questa è la contraddizione maggiore della comunicazione politica dei nostri tempi: nel corso degli anni (anzi, dei decenni) la qualità e profondità delle questioni politiche è andata facendosi via via più complessa e problematica, mentre parallelamente è aumentato in livello di velocità e genericità nell’informazione. Questo ha portato a un crescente gap tra le doti dello statista e quelle del comunicatore a tutto svantaggio della qualità intellettuale della proposta, sacrificata sull’altare della sinteticità.
Pensiamo ad un Aldo Moro, con il suo periodare raffinato, complesso e talvolta contorto, trasportato ai tempi di Twitter. Costretto a sintetizzare le sue “convergenze parallele” in pochi secondi o pochi caratteri. O Enrico Berlinguer con la storica frase sull’Urss pronunciata nel 1982 (“la spinta propulsiva della Rivoluzione Sovietica si è esaurita”). Immaginiamoci questi statisti, con la loro struttura mentale elegante e intricata costretti a tratteggiare arcane geometrie politiche al pubblico-elettore dei nostri giorni…
Indietro non si torna, ovviamente, ma chiedersi “è un bene”? non è sbagliato. E’ un bene essere costretti a svilire concetti complessi? E’ un bene che la superficialità sia più pagante elettoralmente della complessità? ed esiste la possibilità di un punto di equilibrio tra banalizzazione e pedanteria? Sintetizzare la riforma del welfare, le politiche europee, la legge elettorale o l’idea di democrazia in pochi secondi senza per questo sacrificare l’essenza della propria proposta è possibile? Probabilmente no, probabilmente il politico deve abituarsi ad attivare la parte del cervello più sensibile alle emozioni, piuttosto che quella più legata ai ragionamenti complessi. Nel suo “Political Brain” (2007) Drew Westen si è sforzato di dimostrare come il consenso sia legato alle emozioni più che all’approfondimento analitico e come questa operazione riesca particolarmente difficile per i politici di sinistra, meno a loro agio quando si tratta di passare dall’analisi un po’ saccente alla dimensione empatica e – in fondo – anche questo aspetto era evidenziato nel “Perché siamo antipatici” (2005) testo che Luca Ricolfi ha dedicato al “complesso dei migliori” che anima la sinistra nostrana.
Insomma, il raffinato Cuperlo, così colto, così elegante, così evidentemente fuori posto elevato a simbolo del “politico sbagliato” dal punto di vista comunicativo e con lui tutta la parte politica che rappresenta. Ma in fondo – come mi ha detto un giorno un mio professore – non può che essere così: “la sinistra europea deriva dall’illuminismo e dal razionalismo, quindi non può che essere fredda e cerebrale… le emozioni non fanno per lei”.
Autore: Marco Cucchini