10/12/2013 – Come qualunque studente di semiotica impara agli esordi del cursus universitario, il linguaggio – e sopra ogni cosa il linguaggio politico – non è un atto che fotografa la realtà. E’ un atto che la interpreta, la modifica e la crea. Qualunque politico è ciò che dice e come lo dice e il suo parlare fa la sua fortuna.
Non a caso i discorsi di Barack Obama, furbo discepolo della tradizione dei predicatori black culminata in Martin Luther King, ora si studiano all’università. Dalle nostre parti, nell’ultima ventina d’anni, il discorso dal palco è stato soprattutto e sopra tutti l’affabulare berlusconiano. Con tutto ciò che ha comportato in abuso di figure retoriche. Esagerata, smaccata, iperbolica, la parola del Cavaliere ha creato un’Italia che non c’era; quella del famoso milione di posti di lavoro, del presidente operaio, del patto con gli italiani, del Ponte sullo Stretto. Nessuno a sinistra in questi due decenni è stato capace di creare uno stile alternativo. Quando Prodi battè Silvio a fargli da guru fu appunto un professore di comunicazione dell’università di Bologna, Roberto Grandi, che lo strappò al suo bisbigliare smozzicato e fece della ’serenità prodiana’ un marchio di fabbrica che si opponeva alle fanfaronate del Cavalier Banana.
Ora è arrivato Matteo Renzi. E che sia una rivoluzione in termini comunicativi s’era già capito negli ultimi mesi, al netto delle comparsate televisive in giubbotto di pelle. Ma sono il discorso dopo la vittoria delle primarie Pd e la conferenza stampa con cui ha annunciato i componenti della nuova segreteria a marcare la differenza con sinistra del passato, quella che gli ha consegnato le armi fino alla resa finale. Ora, padrone del campo, Matteo è Renzi all’ennesima potenza.
Ma come parla Renzi? Parla per luoghi comuni, si mugugna alle tavole dei bene educati, e non si può negare. Dice cose come “l’importante non è cadere, ma sapersi rialzare”, che non sfigurerebbero nel diario di un liceale. Dice “Ora guido il partito più grande del Paese più bello del mondo” e all’improvviso ce lo si figura con l’ombrellino colorato, come certe guide che scortano i giapponesi su Ponte Vecchio. Ma attenti a Matteo Renzi, quello che tutti si sono chiesti “Ma ci è o ci fa?”, perché sa esattamente dove vuole arrivare quando parla così.
Quando, nel discorso di ringraziamento ai suoi sostenitori dopo la vittoria alle primarie, usa metafore calcistiche che manco un mister delle serie minori, tipo “Io sono tenace e determinato, se mi avete dato la fascia di capitano di questa squadra, non faro’ passare giorno senza lottare su ogni pallone” e ancora: “Questa non e’ la fine della sinistra e’ la fine di un gruppo dirigente della sinistra. Non ne possiamo piu’ di sentire la loro storia, vogliamo scrivere la nostra. Stiamo cambiando giocatori, non stiamo cambiando campo”. E poi, dopo aver detto “mezza giornata di riposo, poi si torna al lavoro” come farebbe il proprietario di una di quelle piccole fabbriche che hanno fatto la fortuna dell’Italia, quel ceto industriale del Centro che la sinistra di quelle terre non ha mai visto come il Nemico, diversamente che altrove, Matteo annuncia che è pronto per fare la squadra.
Scrive su Twitter “il meglio deve ancora venire” e poi snocciola una segreteria di trenta quarantenni in cui per la prima volta, come sottolinea, ci sono “più donne che uomini”. E’ popolare? Certo. E’ populista? Il confine è sottile, ma non è questo il punto. Il punto è che con questo linguaggio, e probabilmente con nessun altro linguaggio in un’Italia modificata da vent’anni di berlusconismo, Renzi ha già creato il cambiamento: il linguaggio si è fatto azione. Domenica sera, con quello stile un po’ da bar, ha mandato a dire al sindacato che è ora di finirla. Alla vecchia classe dirigente, lo stesso. A chi lavora nella scuola, che non è sbagliato differenziare i professori in base al merito. A chi gestisce il nostro patrimonio, che l’impostazione dei Beni Culturali non funziona.
Come farà la rivoluzione, se la farà, lo vedremo. Ma abbiamo capito che il Rottamatore la battaglia la combatte così, che le botte le rifila sorridendo, con Jovanotti in sottofondo.
Ah, tra le altre cose ha detto che vincere non è di destra. E’ vincere e basta. Non dimentichiamolo, quando sarà tempo di campagna elettorale.
Autore: Lara Crimò | Fonte: espresso.repubblica.it | Link all’articolo