Per dare un giudizio meditato sul dibattito relativo alla riforma elettorale penso sia metodologicamente serio partire da quello che veniva – quasi unanimenemente – criticato nella legge 270/2005 (legge Calderoli o “Porcellum”) e in buona parte rilevato dalla recentissima sentenza della Corte costituzionale che, come noto, ha cassato alcuni punti fondamentali di quella legge.
- Un premio di maggioranza ritenuto incongruo perché troppo ampio e senza un quorum minimo per la sua attivazione (quorum che era presente non solo nella “legge Truffa” del 1953 ma addirittura nella “legge Acerbo” del 1923, che prevedeva per scattare il raggiungimento del 25% dei voti);
- Un combinato disposto di riparto dei seggi su base nazionale e liste bloccate “lunghe” che nei fatti hanno reso impossibile all’elettore influire in qualche modo sulla composizione dell’assemblea;
- La presenza di soglie di sbarramento plurime con incentivi all’apparentamento, che nei fatti hanno concorso a determinare la creazione di coalizioni artificiali, tenute assieme più dalla volontà di conseguire il premio che dalla effettiva coesione di programmi e prospettive;
- Una indicazione del “capo della coalizione” probabilmente in contraddizione con l’art. 92 della Costituzione, sulla quale però non esiste un formale parere della Corte stante che questo aspetto non era compreso tra i punti del ricorso mosso dall’avv. Bozzi.
- Il rischio di maggioranze contraddittorie tra Camera e Senato, considerato anche il vincolo costituzionale dell’elezione del secondo “su base regionale”.
La proposta di legge concordata tra Renzi e Berlusconi – da quanto emerso dalla relazione del segretario del PD presentata alla direzione del partito – mantiene i difetti dei primi 3 punti, non influisce sul 4 e rimanda il 5 alla riforma costituzionale. Nel dettaglio: a) Il premio di maggioranza scatterebbe alla soglia minima del 35%, con ballottaggio nel caso in cui nessuna forza politica raggiunga tale soglia. Quindi un premio del 18% se va bene (che non è poco) e molto più elevato se va male, grazie al meccanismo del ballottaggio al quale – nel 2013 – sarebbero state ammesse due coalizioni (PD-SEL e PDL-LN-Destra) nessuna delle quali capace di raggiungere il 30% dei voti al primo turno. b) Le liste sono ancora bloccate, anche se più corte (4-6 eligendi). Ma mantenendosi un riparto su base nazionale, rimane impossibile garantire la scelta dell’eletto da parte dell’elettore, così come conservare un corretto equilibrio territoriale. Su questo si replica che “il PD farà le primarie”, ma queste sono solo una conta interna, non un modo per rilegittimare in chiave sistemica il rapporto tra classe politica e comunità. c) Rimangono gli sbarramenti plurimi e l’incentivo a creare coalizioni eterogenee al solo scopo di abbassare il “costo” di accesso al Parlamento, considerata anche la soglia – assurdamente alta – da superare per i partiti non apparentati, fissata all’8% cioè – dati 2013 – a circa 3.000.000 di voti nazionali. Certo, la proposta potrebbe essere migliorata facilmente. Con pochi ritocchi che non ne smontano l’impianto generale, ma che la rendono meno contraddittoria negli strumenti e meno “borderline” per quanto riguarda la legittimità costituzionale. Sarebbe sufficiente elevare la soglia per il conseguimento del premio al 40% non dei voti, ma dei seggi; sostituire le liste bloccate con collegi uninominali e attribuire i seggi con un riparto proporzionale su base regionale degli stessi, così da evitare il problema dei resti e garantire l’equilibrio territoriale (non è difficile, è il sistema in vigore per l’elezione dei consigli provinciali e fu quello utilizzato per il Senato dal 1948 al 1994). Infine lo sbarramento, che dovrebbe essere abbassato (dall’8 al 5%) e applicato su base regionale, come nel modello spagnolo (del quale questa proposta non ha nulla). Rimarrebbe molto da dire sul sistema elettorale del Senato, che non può essere con premio e riparto nazionale (l’art. 57 della Costituzione prevede il “riparto su base regionale”) e – soprattutto – riesce difficile immaginare la “soppressione” pura e semplice della II Camera e la sua sostituzione con una indefinita “Camera delle Autonomie” la cui composizione, poteri, modalità di elezione è ancora tutta da verificare. Nel caso in cui la riforma dovesse però andare in porto anche nella sua dimensione costituzionale (cioè l’abrogazione/ridimensionamento del Senato) si apre un tema ignorato da tutti ma di importanza centrale: quello del rafforzamento del sistema delle garanzie. In nessuna grande democrazia dove le competizioni hanno un esito di tipo maggioritario (e la nuova normativa si proporrebbe di essere tra quelle) esiste un capo dello Stato eletto dal Parlamento con funzioni di garanzia. Regno Unito e Spagna sono monarchie (così come Canada e Australia), Francia e Stati Uniti fanno eleggere il capo dello Stato direttamente dal popolo e la Germania crea un’assemblea ad hoc (l’Assemblea Federale) composta in via paritaria dai membri del Bundestag e da delegati regionali (complessivamente circa 1300 persone, che si sciolgono dopo aver compiuto il loro compito). E quindi abolire o ridimensionare fortemente il Senato prevede anche un ritocco alle modalità di elezione del Presidente della Repubblica e degli altri organi di garanzia eletti (parzialmente) dal parlamento in seduta comune, Corte Costituzionale e CSM. E non sarebbe fuori luogo pensare anche a un rafforzamento delle garanzie per i parlamentari dell’opposizione. Potrebbe essere di buon senso, ad esempio, ispirarsi alla Costituzione francese (cioè a un sistema istituzionale maggioritario fortemente sbilanciato verso l’esecutivo) che all’art. 61,2 stabilisce testualmente che: ““[…] le leggi possono essere deferite al Consiglio costituzionale, prima della loro promulgazione, dal Presidente della Repubblica, dal Primo ministro, dal Presidente dell’Assemblea nazionale, dal Presidente del Senato, da sessanta deputati o da sessanta senatori“. Si tratta di un controllo preventivo di costituzionalità molto diverso da quello attualmente previsto nel nostro procedimento parlamentare: in Italia la “pregiudiziale di costituzionalità” è discussa direttamente dall’assemblea e quindi, inevitabilmente, viene dato un voto di tipo politico (la minoranza a favore, la maggioranza contro), mentre nel sistema francese la questione è demandata alla Corte costituzionale che risponde in tempi ristretti. In conclusione, più che un punto di arrivo, quello stipulato tra Renzi e Berlusconi sembra essere il punto di partenza, ma resta molto da fare, se solo il dibattito politico smette di ruotare attorno alle sorti personali di questo o quell’altro leader. Marco Cucchini | Poli@rchia (c)