03/02/2014 – In questi giorni alla Camera è successo di tutto e sono volate parole grosse. Si è parlato di pompini. Si sono mandati gli avversari “a cagare” e tutto il corollario collegato al decadimento verticale non tanto (o non solo) della Politica italiana, ma della società italiana. Sempre più greve, ignorante, volgare e inadeguata.
La memoria mi è andata a tanto tempo fa, quando ho cominciato a interessarmi di Politica. All’epoca le ambizioni e la cupidigia non erano minori, ma erano almeno nascoste da un velo di pudicizia e di decoro. Attovagliati al tavolo del potere, anche allora si mangiava, eccome. Ma per lo meno, si usavano le posate…
E poi c’erano momenti particolari, momenti che non possono tornare più. Come quello del 7 aprile 1984, quando alla Camera dei Deputati si discuteva della “Conversione in legge del decreto-legge 15 febbraio 1984, n.10, recante misure urgenti in materia di tariffe, di prezzi amministrati e di indennità di contingenza”, voluto dal presidente del Consiglio Craxi e controfirmato dal presidente Pertini per mettere una pezza a chissà quale magagna economica… Tra i banchi del Partito Comunista sedeva allora Natalia Levi Baldini, eletta come indipendente, a noi nota come Natalia Ginzburg. Non aveva mai parlato prima e se non sbaglio non parlò più dopo… Era spaesata da quell’esperienza parlamentare, dai riti, dalle lentezze, dalla lontananza del Palazzo dai bisogni della gente. Si sentiva inutile e infatti alle elezioni successive rifiutò di candidarsi ancora, preferendo ritornare alla sua casa e ai suoi libri.
Ma quel giorno ruppe il silenzio, mise il naso in questa faccenda di prezzi perché a un certo punto emerse il tema del prezzo del pane. Il pane. E di questo parlò…
«In Italia, ciò che deve morire muore molto lentamente» : su queste parole, attribuite a Gianni Agnelli, ma potrebbero non essere sue, mi sembra proiettarsi un pensiero di molti, secondo il quale in Italia ci sarebbe qualcosa che sarebbe meglio morisse, ma non muore . E una fisionomia dell’Italia antica, quella, che non è stata ancora modernizzata e industrializzata e che tuttavia sopravvive, semimorta , nelle sue ceneri. Chi parlava non diceva questo, ma si riferiva alle industrie passive; ma queste parole hanno evocato in me l’idea che, agli occhi di molti, l’antica Italia appaia come un vecchio corpo destinato alla morte e che troppo lentamente muore . In verità non dovrebbe morire nulla di quella antica Italia ed ogni sforzo comune, privato e pubblico, dovrebbe essere volto al tentativo di conservarne e custodirne intatta l’intima fisionomia .
In passato l’Italia era un paese agricolo ;i suoi beni erano le bellezze naturali, le rovine di antiche civiltà ed i prodotti delle campagne ; i suoi beni erano, ancora, la quiete di certi villaggi, di certe piccole città di provincia o di certi angoli di grandi città immersi nel silenzio; di certi vicoli, di certi sentieri ed una intelligenza antica, un’antica umana consapevolezza dei casi della vita, anche se osservati soltanto da una finestra o da un angolo di cortile. Anni fa l’Italia produceva olio, vino e grano; aveva ricchi boschi, vaste spiagge e splendidi campi. Era necessario costruire buoni e comodi alberghi, per ospitare i turisti stranieri, che avrebbero portato denaro, ma soprattutto era necessario costruire, ovunque, grandi aziende agricole .
Non voglio dire che essa dovesse restare un paese unicamente agricolo, ma esistono paesi – per esempio, la Francia -che sono in parte agricoli e in parte industriali, ma la fisionomia agricola dell’Italia andava rispettata e conservata e non brutalmente sommersa come è stato fatto. L’hanno sommersa brutalmente e bruscamente, come ne avessero vergogna . Oggi chi dice che una fisionomia agricola dell’Italia dovrebbe essere dissotterrata viene considerato una persona dalle idee antiquate e viene deriso, ma io credo che quella fisionomia agricola dell’Italia andava salvata, anche se si costruivano nuove e numerose fabbriche .
Io credo che alcuni mali dell’Italia nascano da quella brutale e rapida soppressione di una sua immagine . Che cosa è accaduto nel dopoguerra? I contadini erano poveri, avevano la vita dura e abbandonarono le campagne . Se ci fossero state le aziende agricole non sarebbero fuggiti, o almeno non sarebbero fuggiti tutti . Se lo Stato li avesse aiutati , molti sarebbero rimasti . Se fossero stati loro offerti i mezzi, per avere una vita meno tetra, meno soffocata, meno emarginata e soprattutto meno dura e povera, forse molti sarebbero rimasti . Ma questo non è successo! Le aziende agricole non sono state realizzate o ne sono state fatte poche . Gli alberghi destinati ai turisti sono stati costruiti, ma sono in genere scomodi, mal gestiti e costosi . La speculazione edilizia ha deturpato le spiagge, ha reso orrendi dei luoghi mirabili fino a ieri. Le acque del mare si sono insudiciate ed inquinate . Invece delle aziende agricole, hanno fatto ovunque autostrade e chioschi di benzina . Erano certo autostrade e chioschi comodi per i turisti, però il paesaggio intanto si sciupava e alberi di olivi e vigne andavano persi .
Gli antichi contadini si sono ammassati nelle grandi città, sperando in una vita migliore. Per qualche tempo, certo, sentivano di vivere meglio. Dovevano faticare nelle fabbriche, ma non dovevano più lavorare la terra. Le città si sono riempite di automobili . I grandi industriali si sono arricchiti . Gli antichi contadini diventati operai hanno avuto, all’inizio, una vita migliore, ma poi è diventata durissima. […].
Durante il fascismo si voleva dare all’Italia una fisionomia militaresca e guerriera. Si volevano alternare i connotati, anche allora . Gli aspetti agricoli dell’Italia il fascismo li metteva in gran risalto, ma in un modo magniloquente, ipocrita e grottesco, del tutto privo di ogni consistenza reale . Le massaie rurali ,le spighe, le zolle, popolavano i libri di lettura della nostra fanciullezza . Mussolini era fotografato a torso nudo, con in mano una zappa. Però intanto nessuna specie di sostegno veniva dato ai contadini. Elmi di soldati e spighe erano le immagini che il fascismo trionfalmente portava avanti. Tuttavia non era difficile scorgere , al di là di quelle immagini, la miseria e l’emarginazione dei contadini e il destino crudele, che attendeva quei soldati.
Oggi si vuole che l ‘Italia appaia come un paese tecnicamente progredito. Ma la sua modernizzazione ed industrializzazione sono state troppo rapide, violente, brutali. Si parla molto del benessere e del progresso. È l’età del benessere questa ? Ma dov’è il benessere? La gente è infelice. Non c’è dubbio che è l’età del benessere , dicono, tutti o quasi tutti hanno un automobile e magari due, il frigorifero, la televisione. Intanto non è vero perché chi è povero è davvero povero e quando è vecchio non sa dove andare, quando è malato non sa dove andare; gli ospedali sono sovraffollati, non ci sono case di riposo, i pensionati devono vivere con pensioni miserevoli, i giovani non trovano lavoro, case di abitazione non ce ne sono e se ti sfrattano non sai dove andare.
La gente è infelice perché, anche quando ha la televisione e l’automobile, sente circolare nell’aria una sensazione costante di instabilità e precarietà . La gente è infelice perché alle donne toccano fatiche immense, dovendo esse congiungere i lavori di casa con il lavoro fuori, fare entrare tutto nelle loro povere giornate, e non avendo in verità aiuti sufficienti, asili nido sufficienti e sicuri dove mettere i bambini piccoli, provvidenze sicure sulle malattie . La gente è infelice, perché sa e non dimentica che gli ospedali sono sovraffollati, vecchi e pieni di topi . La gente è infelice, perché sa e non dimentica che le carceri sono sovraffollate, maldifese e chi ci è rinchiuso teme continuamente di essere ammazzato, come già è avvenuto a molti per vendetta . Chi vi è rinchiuso vive là in una condizione infernale. La gente è infelice perché tra gli uni e gli altri si stende un reticolato sottile, una sorta di strana ragnatela, che lega insieme insieme i diversi destini, cosicché il disagio, le ansie, l’insicurezza di uno passano per contrario agli altri e nessuno trova mai un poco di pace. La gente è infelice, infine, perché teme la guerra nucleare e le immagini di guerra appaiono ogni giorno ovunque nei titoli dei giornali, sui teleschermi, nella sale cinematografiche e se ne discorre ovunque incessantemente.
Tuttavia un buon numero di persone in Italia non divide e non avverte questi disagi, la loro fantasia non li immagina, essi sono fuori da quella ragnatela e la ignorano. Sono quelli che hanno nelle loro mani la facoltà di scegliere, decidere, programmare. Sono i padroni dell’Italia, quelli che sanno di poter guidare il corso delle cose. Essi non pensano mai né alle carceri, né agli ospedali, né alle stazioni, dove dorme buttato in terra chi non ha casa, né ai villaggi in Sicilia dove si muore di sete. Forse temono anch’essi la guerra nucleare in qualche momento, ma vi pensano in maniera ovattata e vaga e ritengono che per loro ci saranno ricoveri antinucleari o la maniera di raggiungerli in tempo utile . Ritengono che loro, così forti, in qualche modo rimarranno incolumi.
Anche loro sono infelici, anzi a volte sono infelicissimi però, in genere, non sanno perché . Della propria infelicità danno colpa agli altri, ai lavoratori inquieti, agli scioperi, alle varie calamità, che possono insidiare i forti . D’estate prendono un aereo e vanno in vacanza in luoghi ameni, solitari ed incontaminati; all’estero, lontano dall’Italia, dalle affollate e chiassose spiagge italiane, dalle campagne tagliate dalle autostrade e sciupate . Non pensano mai né alla gran miseria né alla vita arida ed affannosa di chi non ha veri problemi di sopravvivenza ma si dibatte fra difficoltà giornaliere in corsa con il tempo, la testa vuota e confusa, le orecchie assordate dai rumori, le ore ingombre e mai un istante per scambiare con il prossimo una parola tranquilla, per oziare su un angolo di strada, per capire il proprio destino e se stessi . È vero che l’ozio, la tranquillità, la contemplazione, i grandi privilegiati non l’hanno nemmeno loro, essendo sempre assorti in mille traffici e con la mente annodata in complicati calcoli di denaro .
Se avessero ozio, contemplazione e tranquillità non saprebbero come adoperarli . Tuttavia tra quelli che entrano dentro la ragnatela e quelli che ne sono fuori, tra quelli che respirano la precarietà e quelli che non la respirano esiste una profonda separazione e si stendono distanze incommensurabili .
Molti dicono che, se non ci fossero le fabbriche di automobili, gli operai non avrebbero lavoro . Molti anche dicono che è indispensabile costruire armi, perché, se non ci fossero armi da vendere all’estero, gli operai non avrebbero lavoro e crescerebbero miseria e disoccupazione. Ma questa a me sembra un’affermazione ricattatoria. Non è vero. Invece di produrre tante automobili si potrebbero fare più mezzi pubblici: più autobus, più corriere, più treni. Agnelli e gli altri come lui guadagnerebbero di meno, ma nelle città si starebbe meglio e i viaggi non sarebbero disagiati come sono ora. Invece di produrre armi, si potrebbero fare tante cose di cui ha bisogno la gente : inutile forse numerare tutto quello di cui ha bisogno la gente in Italia . Case a prezzi popolari, asili, scuole, ospedali, case di riposo per i vecchi. Perché produrre armi? Perché produrre tante automobili, quando alla gente manca il necessario? Le vogliono, dice qualcuno. Sì, molti le vogliono, ma occorrerebbe rendere i desideri della gente più nobili, cominciare da quando sono bambini.
Alcuni anni fa, ad un certo momento non si faceva che parlare di austerità . I giornali stampavano articoli, in cui si elogiava il piacere di camminare. L’austerità era soprattutto camminare. Sembrava che tutti dovessero reimparare a andare a piedi. Poi, chissà perché, dell’austerità non si è più parlato. Per le scuole, per gli asili, per le case a prezzi popolari non c’è denaro, dicono i governi ; ma noi abbiamo la sensazione precisa che il denaro dello Sato sia speso ben male. Si fanno autostrade, abbattendo boschi, tagliando campagne, sciupando mirabili luoghi per sempre. Avevamo olio, vino, grano, adesso li facciamo venire dall’estero; mangiamo piselli in scatola, venuti dall’estero. Arance, limoni marciscono ai piedi degli alberi, nessuno li raccoglie; raccoglierli costa troppo, la manodopera è cara, dicono; ma è vero?
[…] Se là dove la frutta marcisce o viene distrutta si facessero delle piccole fabbriche di marmellata, non sarebbe questo un modo di dare lavoro alla gente e di usare quei beni che vanno distrutti o persi. Ma è noto che oggi in Italia chiunque pensi o decida di iniziare un’attività anche modesta e umile subito incontra delle forze oscure che gli chiudono il passo . Là dove nasce un’idea creativa, un progetto utile, mafia e camorra insorgono a chiudere il passo, ed ogni idea, ogni impresa, grande o piccola, ne è subito strangolata. Erano mali antichi, ma adesso sono diventati immensamente più forti e si sono estesi in ogni luogo. Diffondono ovunque un senso costante di insicurezza e paura . Si sa che a pagare saranno sempre i più deboli, i più sprovveduti ed anche i più onesti e limpidi, coloro che vogliono pensare, agire, vivere nella gran luce del giorno.
Mafia, camorra, terrorismo, sequestri di persona, corruzione pubblica, traffico di droga e di armi: questi sono i mali dell’Italia. Come siano sorti e come siano diventati così rigogliosi, così pericolosi e così diffusi è difficile dirlo . Certo, covavano nel paese da tempo e sono esplosi negli ultimi anni. Secondo quelle parole attribuite ad Agnelli, «tutto ciò che deve morire in Italia, muore molto lentamente» . Ma in verità noi abbiamo visto invece in Italia nascere, crescere e proliferare un mondo di cose spaventose, e l’Italia trasformarsi e deturparsi con una rapidità straordinaria, e fulmineamente sparire alcuni suoi connotati che ritenevamo indistruttibili.
L’Italia era un paese, in tempi che ci sembrano ormai lontanissimi, fondamentalmente quieto e mite e adesso è diventato teatro di atroci violenze ; era un paese che detestava il sangue, e ora è diventato teatro di continui, orrendi delitti! Tuttavia, le radici più vive e vitali del nostro paese, le sue qualità essenziali di equilibrio, di sensatezza e di coscienza civile, sono rimaste indenni. […]
L’Italia di fisionomie ne ha molte altre, e alcune sono in armonia perfetta fra loro. Limpide e serie fisionomie dell’Italia, le possiamo scorgere in mille luoghi : in certi vicoli di vecchi villaggi, nel davanzale d’una finestra, nel silenzio di certi vecchi cortili. Quando vi passiamo o vi posiamo gli occhi, abbiamo la sensazione di incontrare un amico, i cui tratti dobbiamo guardare con intensità per poterli ricordare, perché potrebbe da un moment o all’altro sparire, perché la sua vita è legata ad un filo e forse è l’ultima volta che noi lo vediamo! Troppi ne abbiamo visti sparire, di vecchi villaggi : sì tornava e, al loro posto, c’ erano strade o città, un’umanità stralunata, che aveva completamente perduto i rapporti con il proprio passato e non ne aveva nessuno con il futuro! Erano villaggi poveri, dissero, e la gente no n aveva più ragione di starci: sì, ma nessuno mi toglie dalla testa che doveva esser e possibile lasciarli esistere così come erano, migliorandone l’esistenza per gli abitanti.
Altrove, in altri luoghi dell’Europa, i vecchi villaggi e le piccole vecchie città sono stati lasciati come erano, migliorando l’esistenza degli abitanti. In altri luoghi dell’Europa, i rapporti con il passato sono considerati essenziali e ci si prende cura di non distruggerli, sapendo, che una volta distrutti sarà impossibile ricomporli e ricostruirli, e sapendo che il distruggerli umilia e fa ammalare il pensiero umano, rende vile e triste la qualità della vita!
Un collega, in un suo intervento nei giorni scorsi, ha osservato come sia oscuro, tortuoso e contorto il linguaggio del decreto-legge in esame: è vero, esso è tortuoso, contorto e sibillino, come è sempre oggi il linguaggio del potere. Cosi si esprime chi non si propone di comunicare col prossimo, ma semplicemente piegarlo alla propria volontà. Come è lontano il linguaggio di questo decreto dalla gente che passa per le strade, da tutto ciò che la gente desidera, spera, chiede! Persino la parola «pane», nel contesto di un simile linguaggio, suona come qualcosa di astratto, qualcosa che non ha nulla a spartire con il pane che noi tutti i giorni comperiamo e mangiano. Eppure, le leggi dovrebbero essere fatte dello stesso linguaggio che si adopera per parlare dell’acqua e del pane: ma, d’altronde, l’oscurità, la tortuosità del linguaggio l’incontriamo spesso oggi, non soltanto nei decreti-legge, ma anche nei romanzi e nei giornali. È sempre un linguaggio ricattatorio, intimidatorio, è il linguaggio che tacitamente dice al prossimo: «se non mi capisci, è perché sei imbecille!» E ancora tacitamente aggiunge: «io sono più forte di te, sono in una sfera superiore alla tua, fra me e te corrono distanze incommensurabili. lo ho in mano il tuo destino e la tua vita, io sono tutto e tu non sei nulla»!
È vero che, per quanto riguarda i romanzi, la poesia, il teatro, è necessario ogni volta distinguere fra la oscurità che nasce da una ricerca ardua, da una reale complessità di pensiero, e l’oscurità che nasconde puramente e semplicemente il vuoto; comunque, per quanto riguarda i romanzi o la poesia o il teatro, il discorso è lungo e porterebbe lontano. Ma i giornali, i giornali dovrebbero essere chiari: la gente li compra e legge ogni giorno per sapere e capire che cosa succede, e devono essere chiari. E il linguaggio dei politici dovrebbe essere chiaro, accessibile a tutti, immediatamente intelligibile, limpido come uno specchio perché la gente vi si possa specchiare! I decreti-legge devono essere chiari. Fra le molte battaglie da combattere, una è certamente questa: la battaglia per un linguaggio chiaro, concreto, intelligibile a tutti, in rapporto diretto con le cose. lo credo che la vita del nostro paese diventerebbe migliore e più limpida se ognuno di noi si studiasse di vincere almeno, intanto, l’oscurità del linguaggio, se si studiasse di indirizzarsi al prossimo con ogni parola, di non perdere mai di vista la realtà del prossimo, di non irriderlo, non truffarlo, non umiliarlo, non calpestarlo mai. Ma in verità agli occhi del Governo attuale, sembra che il prossimo non sia presente; sembra che non sia fatto di persone singole, ma sia invece una massa informe senza volontà e senza volto. Ad una simile massa informe, non serve indirizzare parole chiare, ma occorre invece avvilupparla in una caligine, in cui non sia più possibile scorgere né strade né direzioni precise. Disorientata, oppressa e stralunata, questa massa uniforme cadrà inerte, perdendo a poco a poco ogni facoltà di interrogare, di rispondere, di giudicare e di ricordare. Non avrà più né vincoli con il passato, né progetti per l’avvenire! In Italia, qualcosa di simile è già avvenuto in età non lontana, e molti di noi ne conservano la memoria. […]
Sappiamo bene che a voi questo è del tutto indifferente, e che voi usate fare come se tale parte dell’Italia non ci fosse o non avesse né occhi né voce, tuttavia ci sembra utile ricordarlo, poiché riteniamo che ne abbiate, in qualche attimo, una vaga sensazione, e riteniamo possa risvegli arsi in voi qualche perplessità. Una grande parte dell’Italia ha orrore delle armi, di qualunque specie siano, nucleari e non nucleari, costruite qui da noi o in altri luoghi del mondo. Una grande parte dell’Italia non vuole saperne di ricoveri antiatomici, perché si sente agghiacciare all’idea di salvarsi a piccoli gruppi se scoppiasse una guerra nucleare, e il giorno dopo affacciarsi su un mondo dove non c’è più anima vivente. Una grande parte dell’Italia si rifiuta di affrontare una idea del genere, ha orrore delle armi anche come mezzo di difesa, e preferisce essere ammazzata piuttosto che ammazzare qualcuno. Né ottimista né pessimista riguardo al futuro dell’umanità, questa grande parte dell’Italia pensa che, comunque, bisogna studiarsi di vivere come se si avesse davanti un futuro di secoli.
Avversa alla violenza, avversa agli spargimenti di sangue, avversa ad ogni specie di distruzione e devastazione, amante di progetti e di memorie, questa grande parte dell’Italia vuole essere solidale con i propri simili, ferma nella difesa della giustizia, risoluta a non cedere alle imposizioni del potere.
Così Natalia Ginzburg 30 anni fa… Dietro un linguaggio semplice e a tratti ingenuo quanti dei temi di oggi: la decrescita, il recupero del paesaggio, la globalizzazione, la lontananza del potere, l’impoverimento del linguaggio… Quanto è distante, oggi, eppure, quanto ancora vicino…
Autore: Marco Cucchini (C) Poli@rchia