08/02/2014 – È certamente apprezzabile l’accelerazione data al processo di riforma dell’attuale legge elettorale, da tutti (a parole) giudicata pessima. E non è meno positivo che si siano cercati consensi ampi, anche se si è ben lontani dalla coralità che il Capo dello Stato ha più volte auspicato. Il tema ci interessa tutti, per le ricadute che ha sulla vita politica e sociale del Paese.
Intervengo, perciò, su di esso, non perché abbia specifiche competenze in materia, ma per la vicinanza che il servizio pastorale mi consente di avere con la gente e per la possibilità conseguente di offrire risposte alquanto affidabili a questioni come questa: che cosa il cittadino comune si aspetta dalla futura regolamentazione dell’elezione dei suoi rappresentanti e da un possibile, nuovo assetto istituzionale dello Stato?
L’ascolto di tantissime realtà, a cominciare da famiglie e lavoratori, da giovani e anziani, fino ad aziende, organismi istituzionali e associazioni, mi consente di dire che – a parte il bisogno di stabilità, purtroppo sempre soggetto ai possibili “cambi di casacca”! – sono tre le attese più diffuse e a mio avviso più che legittime:
la prima è che la nuova legge elettorale assicuri un’effettiva rappresentanza in Parlamento delle istanze del territorio e dei problemi reali della gente;
la seconda è che i costi della politica – pagati da tutti – siano vigorosamente ridimensionati, grazie a un’operazione analoga a quello che nelle famiglie ha voluto dire lo “stringere la cinghia” di fronte ai problemi posti dalla crisi in atto;
la terza è che chi si mette in politica, candidandosi a rappresentare il popolo, abbia un’elevata tensione morale e intenda perciò servire il bene comune e non servirsi dei privilegi della “casta”.
Circa la prima attesa, ho potuto più volte constatare come i più non sappiano rispondere alla domanda su chi sia il parlamentare che li rappresenti: è come se il cittadino comune senta di non aver voce in capitolo; peggio ancora, è come se la maggioranza della gente non abbia alcuna fiducia che i propri problemi e quelli delle collettività territoriali interessino veramente qualcuno dei “potenti”. La cosiddetta Prima Repubblica peccava certo di clientelismo e di sperequazioni connesse al maggiore o minore influsso del politico locale sulle decisioni da prendere a livello nazionale: la gente, però, aveva l’impressione fondata che ci fosse qualcuno impegnato a risolvere i suoi problemi, o per lo meno quelli di larghe fette della società. Negli ultimi anni questo cordone ombelicale fra il cittadino e i suoi rappresentanti si è spezzato: dal momento che i parlamentari sono di fatto “nominati” dai partiti, grazie al sistema delle liste bloccate e all’assenza delle preferenze, gli eletti risultano per lo più estranei e lontani rispetto al territorio di cui dovrebbero essere voce. La soluzione sta anzitutto nel consentire una maggiore conoscenza dei candidati da parte degli elettori, mediante liste più corte e collegi più piccoli. L’esercizio democratico della scelta preferenziale di un candidato rispetto ad altri, pur avendo lo svantaggio di favorire possibili rapporti clientelari fra elettori ed eletti, appare una facoltà che non potrà essere negata a buon mercato. Chi si opporrà alle preferenze o consentirà che ciò avvenga dovrà rendere conto del perché di una simile posizione, che privilegia le oligarchie dei partiti e indebolisce il senso di partecipazione attiva dei cittadini nella scelta dei propri rappresentanti e dell’avvenire comune.
La seconda attesa che percepisco fra la gente è quella relativa alla drastica riduzione dei costi della politica: essa potrà essere soddisfatta anzitutto mediante la diminuzione del numero dei parlamentari. Allo stato attuale il Paese è governato da una pletora di rappresentanti, articolati in un sistema bicamerale perfetto che in realtà è spesso alla base della lentezza a volte esasperante dei processi di approvazione delle leggi. Trasformare il Senato in una struttura di rappresentanza degli organismi regionali e locali, abbattendone i costi e modificandone di conseguenza le competenze, è un passo che potrà risultare positivo. Se la più grande potenza economico-politica mondiale è governata – come lo sono gli Stati Uniti d’America – da un numero di parlamentari che in totale è poco più della metà dei nostri, non si vede perché questo non possa avvenire anche da noi. Con la riforma istituzionale, tuttavia, è necessario anche un riordino dei costi, l’abolizione dei privilegi che fanno parlare di una vera e propria “casta”, una scrematura dei vitalizi e di tutte le altre forme di vantaggi, che rendono il seggio parlamentare un posto ambito, garante della tranquillità economica dell’eletto a tempo indeterminato. Ritornare a concepire il compito del parlamentare come quello di un servitore dello Stato dovrà significare pareggiarlo a un tipo di lavoro di responsabilità, da esercitare con fedeltà e professionalità, con un compenso e con garanzie non diversi da quelli della maggior parte di chi si guadagna la vita con sacrificio e generosità, assumendosi responsabilità non meno significative.
Quest’ultima riflessione ci porta alla terza attesa diffusa fra la gente, quella relativa alla qualità etica di chi si mette in politica. Su questo punto non c’è legge che tenga: come dimostrano i tanti scandali di volta in volta emergenti, l’attuale impianto legislativo e istituzionale non riesce a garantire i cittadini da illeciti perpetrati dietro la facciata del più indisponente perbenismo. L’accumulo di incarichi super-retribuiti, con evidente impossibilità di ottemperare ai doveri imposti da ciascuno di essi, è scandalo che chiede un urgente riordino e opportune sanzioni, dove fossero accertati illeciti o omissioni. Se però non ci sarà una forte e convinta tensione morale, nutrita di responsabilità verso il bene comune e di coscienza educata al sacrificio per amore del prossimo, se non si ritornerà a concepire la politica come forma alta della carità e della vita vissuta come servizio, a poco varranno nuovi meccanismi elettorali o riforme strutturali dell’impianto istituzionale.
Oso qui augurare a chiunque vorrà impegnarsi nell’agone politico di essersi a lungo formato a un’esigente disciplina morale e a una forte tensione spirituale.
C’è un Salmo che dice: “Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori. Se il Signore non vigila sulla città, invano veglia la sentinella” (127, 1). Con immagini vive e concrete, questa parola del Grande Codice, che è la Bibbia, ci ricorda l’urgenza di verificare continuamente le nostre azioni su una misura alta e definitiva, qual è quella legata al fondamento trascendente della vita e della storia. Il Salmo suggerisce al tempo stesso di non presumere delle sole forze umane, invitando implicitamente all’umiltà e all’invocazione. Non sarà allora inopportuno ricordare che la nuova generazione di politici di cui il Paese ha bisogno dovrà coniugare queste tre qualità: continuo impegno di discernimento morale, umiltà nel mettersi in gioco e interiore disponibilità a un più alto giudizio, a un più grande amore. Desiderarlo apparirà ad alcuni un sogno ad occhi aperti, ma è anche l’augurio migliore che si possa fare al destino comune di tutti.
Autore: Mons. Bruno Forte | Fonte: spinningpolitics.it