08/04/2014 – Forse mai come in questa fase storica, in Italia è evidente una grande verità della politica contemporanea, ovvero che quel partito che può contare su una leadership carismatica e personale vive e chi non c’è l’ha, agonizza. A renderlo ancor più chiaro è una singolare contemporaneità di percorsi personali, che consente – in perfetto parallelo – un paragone tra parabole ascendenti e discendenti.
Tutti e tre i principali partiti italiani sono infatti “trainati”, secondo alterne fortune, da leader che gli trasmettono – chi più, chi meno – un consenso che non potrebbero raggiungere altrimenti, in quanto figlio delle proprie, personalissime, capacità di convincimento. Grillo e Berlusconi sono addirittura le architravi dei rispettivi partiti, mentre Renzi regala un significativo (stando ai sondaggi) valore aggiunto ad un partito che esisterebbe comunque.
Anche la fenomenologia, con qualche variabile sul tema, è sempre la stessa. L’avvento di una leadership forte irrompe come un tifone e fa scricchiolare le strutture preesistenti, tuonando contro lo status quo. Si deve creare una cesura col passato, perché quello che c’era prima, evidentemente, non andava bene. E allora serve una nuova narrazione ed essere poi credibili, nel farsene gli interpreti unici.
In questo senso funziona sempre l’equivalenza comunicativa per cui una nuova e forte leadership personale è anche l’alfiere naturale del cambiamento. Altra caratteristica comune è la tempistica. Questo genere di leadership viene fuori sempre dopo un periodo di crisi dello stesso sistema che alla fine – anche obtorto collo – spesso finisce per generarle. Semplificando, si può dire che Berlusconi nasce dalla crisi dei partiti della prima Repubblica. Grillo è il figlio ( o il padre) dell’inizio della crisi della seconda, quando gli scandali della politica si saldano in un micidiale combinato disposto con la crisi economica che morde le vite degli italiani. Renzi, infine, trova la via davvero spalancata solo quando la crisi della seconda Repubblica giunge a piena maturazione, e anche la vecchia guardia del Partito democratico si deve arrendere ad un cambiamento che ha provato a ritardare per un anno.
Ma affidarsi alle leadership “forti” è avventura scabrosa nel lungo periodo. Sono umane e trovano nella fisiologia dei corpi un limite invalicabile. E in questi casi, le stagioni della politica diventano straordinariamente dipendenti dalla biologia. Ce lo ricorda quellostraziante fuori onda della Gelmini con Toti, al crepuscolo di un ventennio di egemonia berlusconiana talmente pervasiva da aver plasmato il Paese, oltreché la politica italiana. Ce lo conferma il fatto che – di questi tempi – l’unica prospettiva davvero intrigante in Forza Italia è più attinente alla sfera della successione dinastica che a quella della contendibilità politica.
E in singolare contemporaneità, speculare e contraria alla decadenza berlusconiana che lascia in panne Forza Italia, ecco la figura di Renzi in piena ascesa, che dona invece nuova vita ad un Pd che sembrava defunto solo un anno fa, proprio di questi tempi. Dinamico, decisionista al limite della brutalità, volitivo fin quasi al cinismo. Renzi ha dovuto conquistare un intero partito per arrivare subito a Palazzo Chigi, piegandolo non tanto alle sue argomentazioni, quanto – appunto – all’irresistibile peso del suo personale consenso.
E l’investimento si è già dimostrato profittevole per il Pd, visto che – in un paio di mesi – ha già tirato quel partito su di vari punti in tutti i sondaggi. E allora, eccola l’essenza strumentale di ogni leadership forte e personalistica. In sintesi estrema è la proiezione della vittoria, quella che per vent’anni ha dato Berlusconi al centrodestra e che ora Renzi si prepara a consegnare al centrosinistra. E’ la speranza/certezza di un successo di cui tutti beneficeranno nella “ditta”, anche i riottosi, le minoranze, i malpancisti, i teorici dello scissionismo che però (per sicurezza) restano sul treno in corsa. Anche perché “è meglio fare la minoranza in un partito al governo”.
E per questo potere taumaturgico, tutto ti viene concesso. Certo, pro tempore. Così, Berlusconi – che portava lui i voti – ha potuto costruire un partito a sua immagine e somiglianza, attraversando scandali, processi, sconfitte e quant’altro, ma rimanendone indiscusso leader per vent’anni. Così Grillo – che porta lui i voti – ha un movimento simil padronale, dove i dissidenti sono espulsi per direttissima e il suo blog resta incontrastata bussola politica. Ma è Renzi – che porterà lui i voti – a destare più sorpresa di tutti. In un partito noto per una democraticità interna che spesso ha sconfinato con la pulsione a non decidere mai, ha rivoluzionato tutto in quattro mesi scarsi.
L’ex Sindaco ha portato il Pd nel Pse in una serata, fatto l’accordo con quello che bisognava “smacchiare” (e nel sancta sanctorum dei feticisti del partito). Ha ideato una riforma costituzionale al limite del digeribile a sinistra, una del lavoro accusata di smaccata intelligenza col nemico e in aggiunta – superbia delle superbie – ha osato rispondere per le rime al presidente del Senato e ai mostri sacri del costituzionalismo professorale che lo criticavano. Un altro, per una sola di queste cose, da quelle parti avrebbe dovuto affrontare un calvario.
Ma Renzi, appunto, è un vincente e i suoi “peccati” sono emendati, anche dai suoi nemici interni, solo in esatta proporzione alle sue chance di portare a vittoria il partito (con tutti dentro). Allo stesso modo, se Grillo non fosse più il vero catalizzatore mediatico della gran massa dei consensi per il Movimento, sarebbe oggetto – in un batter di ciglia – della stessa furia manichea espressa contro gli altri dissidenti. E Berlusconi, che è stato un vincente ma potrebbe presto non esserlo più, sarà abbandonato dai suoi, sempre secondo questa spietata, proporzione geometrica.
Ultima riprova, si guardi a sinistra, dove – rimasti senza un leader vero – se ne sono andati a cercare uno fino in Grecia. Tutto il resto, sono chiacchiere.