Casaleggio e i limiti (fattuali) della democrazia diretta

Casaleggio e i limiti (fattuali) della democrazia diretta

ConfAPRI e Movimento 5 Stelle a confronto23/04/2014 – I passaggi più importanti della bella intervista odierna di Peter Gomez e Gianni Barbacetto a Gianroberto Casaleggio, sul Fatto, sono quelli in cui il co-fondatore del MoVimento 5 Stelle ammette alcuni limiti fattuali della sua idea di democrazia digitale diretta. E dunque di quella – affatto nuova, ma rinnovata proprio dai Cinque Stelle – di affidarsi principalmente, strutturalmente a Internet per rivoluzionare la politica.

Prima di tutto, Casaleggio mostra di essere consapevole dei limiti di Liquid Feedback, la piattaforma che più di ogni altra ha suscitato le speranze di chi – specie nel movimento – abbia compiuto quella “adesione” richiesta dal “passaggio culturale” dalla democrazia rappresentativa alla democrazia diretta. “Non funziona”, dice, “ha segnato la fine del Partito dei Pirati in Germania”.

Vero. Ma allora dovrebbe dirlo ai tanti attivisti che, a livello locale, hanno puntato proprio su Liquid Feedback, a partire dai laziali del ‘Parlamento Elettronico‘. E allo stesso Beppe Grillo, che il 22 marzo 2013 diceva: “In futuro tutte le proposte confluiranno nella piattaforma Liquid Feedback, gli specialisti le scriveranno e i cittadini potranno votare la scelta migliore”. La rapidità nel cambio di direzione, pur legittimo, fornisce una misura della difficoltà di incorporare strumenti tecnologici in così rapida evoluzione all’interno del funzionamento stesso delle forze politiche e delle istituzioni.

E poi se è vero che Liquid Feedback non è la panacea di ogni male, è altrettanto vero che è ingeneroso rottamarla a questo modo, specie se l’alternativa è una piattaforma chiusa (Liquid Feedback è invece open source) e con molte meno possibilità di interazione per chi partecipa come la Lex adottata da Casaleggio e Grillo. Di cui lo stesso Casaleggio sembra riconoscere il carattere di esperimento (“Non c’è la democrazia diretta. Siamo i primi in Europa a perseguirla e non abbiamo esempi“).

Altro limite riconosciuto per implementare i piani “iperdemocratici” del duo, e a cui allo stesso modo attualmente non c’è risposta, è quello della sicurezza del voto online, giustamente ricordato da Gomez e Barbacetto. È un problema, dicono. “Vero”, risponde Casaleggio, “noi stiamo cercando di fare il possibile”. Come? Cercando “società esterne in grado di verificare ex post, a campione, se i risultati raggiunti sono corretti”. Al lettore il giudizio su cosa ciò comporti per le consultazioni svolte online finora.

Il combinato disposto – la mancanza di una piattaforma di discussione adeguata e la scarsa sicurezza sulle decisioni che produce – ribadisce la natura fideistica dell’adesione richiesta da Casaleggio al “passaggio culturale” alla democrazia digitale diretta. Che, è vero, in nessun altro luogo del mondo informa un progetto politico vasto e importante anche in termini di consenso elettorale come il MoVimento 5 Stelle, ma che forse anche per questo dovrebbe portarci a riflettere sulla reale opportunità di fare dell’Italia il primo Paese al mondo dove ciò accade. Se non altro, a valutarlo con l’accortezza e le cautele che si associano a ogni ipotesi sperimentale, senza i proclami e gli ideologismi di cui troppo spesso lo stesso Casaleggio si è fatto portavoce.

A maggior ragione se il digitale non risolve, ma semmai mostra più chiaramente, tutti i problemi – teorici e pratici – che da sempre si associano alla democrazia diretta. Come ha dimostrato la storia dello stesso movimento, e come confermano le esperienze nel resto del mondo che ho documentato nel mio volume ‘Critica della democrazia digitale‘, allo stato attuale quella che Casaleggio chiama con inusuale cautela “sperimentazione” è in realtà un azzardo, a partire dalla stessa ipotesi che la democrazia digitale diretta sia realmente più democratica del pur acciaccatissimo status quo basato sulla rappresentanza. Un azzardo, come scriveva Vittorio Foa nel 1993, destinato a perpetuarsi proprio insieme all’agonizzare – oramai evidente – della democrazia rappresentativa, ma non per questo meno rischioso.

E non si tratta solo delle questioni, tutto sommato tecniche, di votare in modo sicuro e di far partecipare davvero chi partecipa attraverso un software all’altezza: il problema è garantire che quelle votazioni e quella partecipazione avvengano in un contesto davvero plurale e informato, in cui il dissenso sia considerato un valore – con apposite garanzie e strutture affinché ciò non sia una mera petizione di principio – e non guardato con sospetto. Da questo punto di vista, Casaleggio non fornisce una risposta soddisfacente quando sostiene che si sta dando “un’importanza eccessiva” ai dissidenti espulsi dal movimento: “Questi sono dei portavoce di un programma”, dice, “che sono stati mandati lì dai cittadini. Punto. Non sono Charles De Gaulle”.

È la logica, negata dalla nostra Costituzione, del vincolo di mandato, e soprattutto della spersonalizzazione, del mutamento del giudizio individuale in nulla una volta che si sia formato il consenso tramite la deliberazione collettiva. Ecco, l’imperativo è ragionare sulla effettiva democraticità di quella formazione del consenso, oltre che di quel mutarsi dell’individuo in “terminale“, come spesso abbiamo letto e sentito ripetere ai candidati e agli eletti a Cinque Stelle. Perché la politica è molto, molto più complessa del semplice rispetto di un patto, e di espellere chi non lo mantiene (“Se tu prendi un impegno con me e non lo rispetti, io non ti voglio più vedere. Finito“).

E se è certamente vero che troppo spesso il giornalismo diventa propaganda (era indispensabile parlare di “nipotini di Goebbels“?), è altrettanto vero che rispondere con un vaffa o eludere ancora molte, troppo critiche e domande trincerandosi dietro a una battuta (“abbiamo un cattivo carattere“) non pare all’altezza dei propositi rivoluzionari per il futuro della nostra democrazia.

Autore: Fabio Chiusi | Fonte: wired.it

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