23/07/2014 – Fino al 1906 la Finlandia ne aveva quattro, Simón Bolívar ne avrebbe volute tre. In attesa che i senatori votino gli emendamenti alla riforma, ecco perché un ramo solo del Parlamento spesso non è ritenuto sufficiente.
Che te ne fai di una camera in più? Altro che interior design: è la questione su cui su cui l’intera politica italiana va scervellandosi ormai da tempo. Ora, però, siamo alla stretta finale. Oggi, a meno che non si verifichino slittamenti, ai senatori toccherà votare gli emendamenti alla riforma dell’assemblea di cui al momento fanno parte. Il punto, in sostanza, è correggere la cosiddetta “anomalia italiana”, per cui rappresentiamo l’unico caso al mondo di sistema in cui i due rami del parlamento hanno identiche funzioni. Una precauzione che, dopo la caduta del fascismo, fu presa per evitare nuove derive autoritaristiche. Quel rischio si ritiene non esista più: la linea sul quale si muove la proposta di Boschi, Calderoli e Finocchiaro, è ora quella di dare al nuovo Senato delle nuove competenze, ben distinte da quelle della Camera dei Deputati. Nello specifico, il suo ruolo principale dovrebbe essere quello di raccordo tra Stato ed enti locali (cioè comuni e regioni). Avrà la possibilità di proporre modifiche alle leggi ordinarie – ma la Camera non sarà obbligata a tenerne conto -, mentre manterrà il potere di voto su riforme e leggi costituzionali, leggi elettorali degli enti locali e ratifiche dei trattati internazionali.
Facendo un passo indietro – e accantonando la distinzione tra bicameralismo perfetto e imperfetto – è comunque utile domandarsi perché abbiamo due camere. Una scelta non scontata, visto che dei 193 parlamenti che fanno parte dell’Ipu (l’Unione interparlamentare), 114 sono unicamerali e 79 bicamerali. La tendenza è a ridurre. Dagli anni Cinquanta a oggi, a potare un ramo del parlamento sono stati in tanti: Nuova Zelanda, Danimarca, Svezia, Grecia, Portogallo, Serbia, Perù, Venezuela e Croazia, giusto per fare nomi. Il che ha un senso, in termini di ragioni storiche. Il bicameralismo ha infatti origine nell’Inghilterra del ’300: serviva a creare un governo misto che tenesse conto delle istanze di diversi ceti sociali. Di norma, aristocratici in una camera e borghesi nell’altra. La Finlandia, ai tempi in cui era un granducato dell’Impero russo, di camere ne aveva addirittura quattro: una per la nobiltà, una per il clero, una per la borghesia e una per il popolo. Si trattava, per l’appunto, di un sistema tetracameralista, come voleva la tradizione delle assemblee scandinave. Tra l’altro, in questo caso si trattava addirittura di tetracameralismo perfetto: le quattro camere votavano separatamente e senza comunicare tra loro: se una legge veniva approvata da tre su quattro, veniva sottoposta all’imperatore. Roba da medioevo? Non proprio. La sostituzione con un parlamento monocamerale è del 1906.
Tre camere le ha invece avute il Sud Africa ai tempi dell’apartheid. Anche qui, uno specchio della divisione sociale. Il parlamento tricamerale, attivo dal 1984 al 1994, era infatti strutturato su base razziale: nella House of Assembly sedevano i bianchi, nella House of Rapresentatives i neri e i meticci, nella House of Rapresentative gli indiani. Vale quindi l’equazione per cui meno camere significa più uguaglianza? Non per forza. È vero che monocameralismo, in questo senso, è figlio della rivoluzione francese. Dell’idea di sovranità nazionale indivisibile e dalla massima di Emmanuel Joseph Sieyès per cui due camere che la pensano in modo identico sono inutili, mentre due camere che la pensano in modo diverso sono dannose.
Ma è anche vero che una – o più – camere aggiuntive possono avere funzioni specifiche che non rappresentino per forza una stratificazione nella società. La riprova? Il fatto che il rivoluzionario per antonomasia, Simón Bolívar, ai suoi tempi proponesse un sistema tricamerale: la Camera dei Tribuni (l’unica elettiva) si sarebbe dovuta occupare di finanza, affari esteri e difesa; il Senato (ereditario) di giustizia e i Censori avrebbero avuto funzioni di controllo. A tre scomparti era anche, fino al 1990, il parlamento della Repubblica socialista di Croazia: una camera socio-politica, una per gli enti locali e una per le professioni.
Tornando ai giorni nostri, il bicameralismo rimane il sistema impiegato dalle nazioni più popolose e da quelle più industrializzate. C’è chi la seconda camera, spesso non elettiva ma nominata, ha deciso di organizzarla su base corporativa. Lo Seanad irlandese, per esempio, include cinque gruppi di esperti che si occupano rispettivamente di amministrazione, agricoltura, cultura, industria e lavoro. Anche Marocco (che riserva seggi alle camere di commercio e ai sindacati) e Tunisia(che nella camera alta fa sedere sia i rappresentanti dei governatorati che quelli delle organizzazioni professionali) hanno scelto di procedere in modo analogo. Nel caso delle federazioni, di norma, la seconda assemblea è composta su base geografica e rappresenta, appunto, i singoli stati. Sistema ripreso anche da nazioni che non hanno optato per il federalismo: in Spagna il Senado è in parte elettivo e in parte espressione delle 17 comunità autonome.
In altri casi ancora, entrambi i rami del parlamento si occupano di legiferare, ma con funzioni diverse o con contrappesi che non le rendono paritarie. È il caso della Francia, dove in caso di stallo può essere avviata una procedura speciale che permette all’Assemblea nazionale di prevalere sul Senato. Ma anche dell’Inghilterra, dove la Camera dei Lord ha poteri molto limitati rispetto a quella dei Comuni. Negli Stati Uniti, perché un provvedimento venga approvato, è necessario che sia votato sia dalla Camera che dal Senato, dove sono rappresentati in modo uguale tutti gli stati. Se non succede, di solito si forma una commissione mista incaricata di elaborare un compromesso da riproporre a entrambi. L’importante, in generale, è sempre che la camera in più rappresenti una risorsa – per funzioni o per la rappresentanza specifica che offre – e non solo un passaggio in più per l’approvazione delle leggi. Una linea di pensiero che, probabilmente, troverebbe tra i suoi sostenitori perfino l’abate Sieyès. A breve scopriremo come la interpreteranno i nostri senatori.
Autore: Marco Valsecchi | Fonte: wired.it