In principio fu Sergio De Gregorio. Eletto senatore dell’Italia dei Valori nel 2006 ci mise solo pochi giorni per saltare dall’altra parte della barricata, con l’opposizione berlusconiana. E il passaggio fu agevolato – ammise De Gregorio stesso – da un “contributo” di 2.000.000 di € ricevuto a titolo di ingaggio, come per i calciatori che cambiano casacca a metà campionato. Altri ne seguirono, naturalmente, belli e brutti. E nessuna persona perbene, che conduce una vita normale, che lavora, onora i propri impegni, cresce i figli con un minimo di valori civili, che fa quadrare i conti di casa e cede il posto in autobus non può non provare un senso di vomito ogni volta che sul teleschermo compare Antonio Razzi, immagine iconica del peggio della politica italiana: semianalfabeta, volgare, sessista, profittatore.
Ma Razzi e il suo sodale Scilipoti non furono i soli, ovviamente… la transumanza parlamentare è continuata anche se con personalità di minor talento comico, ma mai si era assistito ad un intero gruppo parlamentare che si sposta in blocco. Certo, si potrebbe obiettare con ragione sul fatto che “Scelta Civica” non ha fatto politica per un solo giorno dopo le elezioni e che una somma di individualità di prestigio non generano un partito politico. Le colpe sono di molti, la principale probabilmente dell’ex leader Mario Monti, ma il risultato è uno solo: se Scelta Civica doveva essere il “motore liberale” del governo, in questi due anni non lo è mai stata. Esperimento fallito. Elettori scomparsi. Parlamentari in cerca di un tetto e un piatto caldo.
Non sono solo i singoli a tradire il mandato elettorale ricevuto, naturalmente. Lo fanno partiti interi. Nella legislatura 2008-2013 si è cambiato un pezzo di Costituzione (l’art. 81) senza che questo tema fosse minimamente stato ipotizzato in campagna elettorale e senza un referendum confermativo per verificare l’opinione del corpo elettorale su questa questione, sempre che il corpo elettorale abbia opinioni su qualcosa… E in questa legislatura, non ne parliamo! Il PD vince le elezioni grazie ai quattro voti di SEL, si piglia un megapremio di maggioranza (definito “incongruo” dalla Corte Costituzionale) e come nulla fosse, immediatamente, getta alle ortiche il mandato elettorale ricevuto scaricando i vendoliani e dando vita all’ambigua stagione delle grandi intese (in seguito derubricate a “medie” e poi “piccole”) con la presidenza di Enrico Letta.
Enrico Letta – pugnalato nel sonno – cede il passo allo scattante Matteo Renzi il quale, gettando alle ortiche tutto quanto detto/promesso/sostenuto nei 2 anni precedenti, si attiva per dare una natura strutturale alla collocazione neocentrista del PD, rinnegando in toto il programma elettorale di “Italia Bene Comune” che pure aveva consentito la minivittoria elettorale del 2013.
Continuare con gli esempi non ha senso perché il punto è chiaro: perché gli impegni presi con gli elettori non vengono considerati vincolanti ne dai singoli ne dai partiti? Le risposte possono essere molte, non solo istituzionali ma anche etiche, politologiche o sociologiche. Io preferisco focalizzarmi però sulla natura perversa del sistema elettorale, in particolare per il combinato disposto dei difetti del premio di maggioranza con quelli delle liste bloccate.
Il premio di maggioranza su base nazionale rende il Paese un solo, enorme collegio uninominale, con i singoli candidati premier quali unici competitors. Questo porta a una prevalenza della comunicazione “centrale” costruita attorno al leader e al suo rapporto non mediato con l’opinione pubblica. Viene quindi a generarsi un presidenzialismo de facto, non disciplinato e non temperato dal sistema di check & balances proprio dei presidenzialismi istituzionalizzati e questo autorizza nei fatti il premier eletto a comportarsi senza tenere troppo in conto altri fattori che non siano la sua convenienza di breve periodo.
Certo, si può obiettare che vi sono altri sistemi nei quali il capo del governo è virtualmente eletto direttamente dal popolo, quello britannico su tutti. Però si dimentica un fattore importante: la potenziale autonomia del singolo parlamentare, titolare di una propria quota di consenso necessaria per il raggiungimento della maggioranza. Portare in dote un collegio uninominale vinto o alcune decine di migliaia di preferenze consente, infatti, all’eletto di avere un peso politico molto maggiore di quanto non ne abbia un qualsiasi Carneade nominato dall’alto… Pertanto, non più controllato da nessuno, il premier di turno può spostarsi a destra o a sinistra confidando sulla smemoratezza e la disattenzione dell’elettore medio.
Ma l’apparente vantaggio implicito nel sistema delle liste bloccate – cioè l’elezione di parlamentari fedeli privi di qualsivoglia relazione con il territorio di espressione – ha una evidente controindicazione: la fedeltà talvolta, come si compra la si perde. Il parlamentare che non deve rendere conto a nessuno, tranne che a se stesso, delle proprie scelte può cambiare partito in presenza di opportunità migliori, senza per questo dover dare sgradevoli e complicate spiegazioni agli elettori… E’ per questa ragione che – da quando esistono le liste bloccate – è aumentata la transumanza parlamentare.
Riteniamo che sia sbagliato il continuo cambio di casacca di decine di parlamentari? allora evitiamo le prediche etiche – che tanto non attaccano – e creiamo dei meccanismi di selezione dei parlamentari che consentano all’elettore di premiare o punire il comportamento dei singoli. Cioè, in una parola, basta con lo scandalo delle liste bloccate, che tanto piace ai leader dei partiti. Di tutti i partiti.
Marco Cucchini | Poli@rchia (c)