L’Italicum – la brutta legge elettorale partorita dal Patto del Nazareno, poi ripudiata da uno dei due contraenti – è giunto all’ultimo miglio. E taglierà il traguardo a breve, se non dovesse inciampare, cosa che mi pare oggi piuttosto difficile.
Non entro nel merito del testo. E’ una legge pessima, compromissoria, furbetta e ambigua sulla quale già ho scritto in passato e non merita che ci si sprechi ulteriore tempo: il consultellum in vigore è molto ma molto meglio e quindi, dovesse venire bocciata, l’Italia sarebbe più europea e civile. Quello su cui mi interessa riflettere è la creazione del clima con il quale tale legge viene discussa, in particolare osservando quello che accade dentro al Partito Democratico.
Credo che in questa vicenda tutti ne escano male. Innanzitutto, ne esce male il governo, che ha dimostrato una prepotenza e una invadenza senza precedenti in una materia che il decoro e lo spirito costituzionale (anche se non la lettera) dovrebbero riservare all’autonomia del Parlamento. Il presidente del consiglio in ogni fase dimostra una preoccupante tendenza ad elevare il livello dello scontro, in base alla logica “ o con me o contro di me”. Questo è probabilmente il prodotto di un carattere egotico e arrogante, ma anche soprattutto una lucida strategia di marketing politico: il tentativo cioè di costruzione dell’immagine dell’uomo forte, dell’uomo non legato alla poltrona, dell’uomo “del fare”.
Si tratta di una impostazione assolutamente in linea con la politica contemporanea. Viviamo in tempi in cui non si dà più valore alla faticosa costruzione del consenso, alla valorizzazione delle diversità e delle pluralità, alla dignità delle assemblee elettive. In tutto il mondo occidentale la politica è diventata da un bel po’ di tempo leaderistica. Paradossalmente, il sistema in cui il Parlamento ha più peso e valore è rimasto quello degli Stati Uniti, che per primi adottarono una forma di governo monocratica e quindi si posero lucidamente il problema della costruzione di un sistema di pesi e contrappesi democratici. Anche la cosiddetta dittatura del Primo Ministro inglese ha i suoi equilibri, prodotti dalla consuetudine plurisecolare e dalla netta distinzione percepita tra ciò che è fair e ciò che è unfair, al riparo da una costruzione costituzionale che il prossimo 15 giugno compirà il proprio 800º compleanno.
Nella politica contemporanea decidere è più importante del discutere. La rapidità è più importante della riflessione. Lo slogan è più importante del contenuto. In un contesto nel quale – per citare House of Cards – “il bisogno di rimanere al potere è superiore al dovere di governare”, Matteo Renzi si muove con straordinaria disinvoltura e abilità. È un uomo di coraggio, ma quale tipo di coraggio? Questo estremizzare sempre e comunque ogni passaggio è simile al coraggio irresponsabile di chi gioca alla roulette russa sapendo che in fondo ha ben 7 possibilità su 8 di salvarsi. È il coraggio del giocatore di poker che punta tutto quello che ha, confidando nella propria capacità di celare le debolezze grazie al talento di bluffatore.
Ma presto o tardi questo tipo di coraggio porta a cadere. E quando si cade lo si fa con il botto. In Barry Lyndon, Stanley Kubrick dice che il protagonista aveva quel tipo di talento che consente di costruire un grande patrimonio ma che presto tardi porta anche a perderlo… credo che Matteo Renzi possa rientrare in questa categoria: non si può governare a lungo e stabilmente correndo sempre sul ciglio dei tornanti, con il piede a tavoletta e i fari spenti.
Ma se gli errori e gli orrori del governo sono comunque anche il prodotto di una lettura lucida delle logiche che nella nostra società costruiscono il consenso popolare e dunque le vittorie elettorali, gli errori compiuti dalla minoranza del Partito Democratico sono privi di una qualsiasi spiegazione o attenuante etica o politica, così come non trovano razionalità neppure nel disegno di costruzione di una alternativa renziana. Sono errori gratuiti. Sono quello che nel tennis è il doppio fallo, quando la prima di servizio viene tirata troppo forte per arroganza e la seconda infossata in rete per paura.
La minoranza del PD contesta infatti una soluzione legislativa che aveva non solo approvato ma anche contribuito a scrivere nella scorsa legislatura ai tempi della cosiddetta “bozza Violante”, disegnando un sistema elettorale che prevedeva non 100 capolista bloccati come quelli dell’Italicum, ma addirittura 210. Così come il premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione era sostenuto dall’attuale minoranza PD ai tempi della battaglia referendaria del 2009.
Quello che manca a Bersani & Co. è infatti una coerente visione politica e ideale. In ogni fase, prima e dopo la nascita del governo Renzi, è prevalsa la strumentalità tattica rispetto alla visione di sistema. Si diceva di volere una formula uninominale, ma si è bocciata la mozione parlamentare pro Mattarellum. Si sostiene la necessità di una democrazia dell’alternanza, ma si adottano battaglia di retroguardia incomprensibili ai più. Si vuole la fine del renzismo, ma non si ha il coraggio né di dirlo, né di prepararla.
La storia ha dimostrato che l’unità nel comando e nella volontà il più delle volte vince le battaglie. E per dirla con Napoleone, in guerra è meglio un generale mediocre che due bravi. La minoranza del PD infatti si è costantemente distinta per l’assenza di una visione unitaria al proprio interno, per la paura, per la capacità di raccontare una storia diversa. Per questo è destinata a perdere, oggi e domani. E chi pensasse che in discussione ci siano solo alcuni dettagli o le sorti personali di un pugno di deputati sbaglierebbe. In competizione ci sono due visioni della politica e del partito: la visione renziana del partito “comitato elettorale del leader” e quella classica della minoranza PD del partito quale luogo di mediazione tra istituzioni e società. Forse la seconda versione è la più democratica, ma la prima è quella più realistica e al passo con i tempi… il non capirlo è imperdonabile.
E quindi, eccoci a vedere l’approvazione di una legge elettorale brutta. Voluta da un premier non eletto, forzando la mano a un parlamento insediato da una legge incostituzionale. Una legge e una procedura che non piace a nessuno, tranne ai Berserkir del premier e a un pugno di costituzionalisti di stretto Rito Renziano, forse eccitati dal miraggio della poltronissima liberata da Sergio Mattarella al Palazzo della Consulta.
Che tutto questo però si possa rivelare – alla lunga – un vantaggio per Matteo Renzi è ancora da dimostrare. Potrei citare la “Maledizione” per la quale nessuno ha vinto le elezioni dopo aver modificato la legge elettorale: Alcide De Gasperi ha imposto la “Legge Truffa” e ha perso le elezioni successive; la DC ha immaginato il “Mattarellum” per costruire un meccanismo capace di attribuirle il 40% dei seggi con il 25% dei voti ed è sparita l’anno seguente; Mario Segni ha creato il bipolarismo dando poi vita a un improbabile “terzo Polo” che ne ha sancito la fine della carriera politica e Berlusconi ha voluto il “Porcellum” nella convinzione che gli avrebbe permesso di rivincere le elezioni, che invece ha perso. No, il vero rischio per Renzi non sta nelle profezie. Il vero rischio è – come dicevo prima – lui stesso. Non è probabile che nel segreto dell’urna l’Italicum venga bocciato, però è possibile. Non è probabile che alla fine di maggio il centrosinistra perda nelle 3 regioni chiave: Liguria, Campania e Veneto. Però è possibile. Non è probabile che si realizzi il combinato disposto “bocciatura Italicum-sconfitta alle regionali”, però è possibile.
Se non si realizzasse il “probabile”, ma il “possibile”, tra un mese non saremo più intenti a parlare dello strapotere di Renzi, ma del dopo Renzi. Della fine politica di un leader coraggioso, che ha avuto sfortuna alla roulette russa. Pum!
Marco Cucchini | Poli@rchia (c)