Leggere gli accadimenti esteri basandosi su paradigmi interni è una delle manifestazioni più costanti e prevedibili del livello di provincialismo della nostra classe politica. I politici italiani hanno una certa tendenza a fissarsi l’ombelico, credendo (o fingendo di credere) che tutto quanto accade attorno a loro possa avere un qualche collegamento con le dinamiche interne al nostro Paese. E così, come alcuni mesi fa non sorprendeva che ci fosse chi lasciava intendere che avesse vinto Tsipras solo perché i greci leggono in massa il blog di Giuseppe Civati o seguono le barocche narrazioni di Nichi Vendola, oggi non meraviglia che si cerchi di far passare l’idea che – in fondo in fondo – il Labour perde perché nel suo “Manifesto” non si proponeva l’Italicum o Cameron vince perché in un angolo del loro cuore gli inglesi ci invidiano Angelino Alfano…
Se le indebite comparazioni tra contesto italiano e vicende britanniche rimanessero confinate nel pollaio partitico, non perderei tempo a confutarle tanto, a ben vedere, a chi importa realmente di quello che possono dichiarare i vari Guerini, Gasparri o Salvini? Però, se l’esercizio stilistico della comparazione “un tanto al kg” viene da persone del cui parere un po’ mi importa, allora le cose cambiano… E quindi, vengo a quanto scritto dal prof. Roberto D’Alimonte – il dr. Strangelove dei sistemi elettorali – nel suo articolo su “IlSole24Ore” del 9 maggio.
Nel suo pezzo, il Professore – con riferimento all’uninominale inglese – ironizza che “Siamo di fronte a un sistema elettorale indiscutibilmente incostituzionale secondo i criteri della nostra Corte. Non solo. Secondo i critici nostrani dell’Italicum non c’è alcun dubbio che la democrazia inglese sia in grave pericolo. La deriva autoritaria è dietro l’angolo. La più antica democrazia parlamentare del mondo è ormai moribonda. Come è possibile che un premier eletto da poco più di un terzo degli elettori possa governare legittimamente?”
Messo il dito nell’occhio alla Consulta (D’Alimonte non ha mai digerito la sentenza 1/2014 verso la quale ha più di una volta usato espressioni irridenti, anche se scarsamente meditate) e alle argomentazioni più semplicistiche dei critici dell’Italicum (il prof. è piuttosto permaloso e vive ogni critica al suo “capolavoro” come un attacco personale…), passa ad una comparazione tra i due modelli: il glorioso plurality e il neonato Italicum.
Il nucleo forte dell’argomentazione dalimontiana è questo: “con l’Italicum quello che è successo in Gran Bretagna accadrà in maniera diversa. E in meglio. Infatti, il vantaggio dell’Italicum sta nel fatto che chi vince avrà 340 seggi e chi perde se ne dividerà 278. […] Il punto è che l’Italicum è sì un sistema majority-assuring, cioè assicura che ci sia un vincitore certo, ma a differenza di quello inglese non è un sistema winner-takes-all. Il vincitore infatti non si prende tutta la posta in gioco ma solo il 54%”.
Cioè – riassumo io – l’Italicum è migliore dell’uninominale di collegio perché meno disproporzionale e quindi – conclude D’Alimonte – “da noi grazie all’Italicum Salvini e Grillo possono dormire sonni tranquilli. Mal che gli vada porteranno comunque in parlamento una bella pattuglia di deputati”. Ora che abbiamo la consolazione che l’aula sorda e grigia potrà anche in futuro venire illuminata dal raffinato pensiero leghista e grillista affrontiamo il nocciolo del ragionamento: la disproporzionalità e la rappresentatività. Che non sono sinonimi e considerarli tali sarebbe peggio di un crimine, sarebbe un errore.
Roberto D’Alimonte non è analista improvvisato: si occupa da lungo tempo di sistemi elettorali, sui quali ha curato molti volumi di buona qualità. Ma sempre con due limiti di fondo: i suoi lavori sono tutti focalizzati sulla dimensione interna (e ci sta, in fondo insegna Sistema Politico Italiano, non Politica Comparata) e sono privi di un’ambizione di tipo teorico generale, contrariamente agli studi proposti su questo tema da autori come Duverger, Sartori, Cox, Rokkan o Lijphart. E quindi – inevitabilmente – quando utilizza il termine “disproporzionalità” ha in mente una visione della rappresentanza politica “all’italiana”, cioè totalmente incentrata sui partiti politici.
Ora, che il proporzionale sia un sistema più garantista e – sulla carta – più aperto e democratico è fuori di dubbio. Ma si può essere rappresentativi senza essere proporzionali, ed è la logica del collegio uninominale. Del quale non è fuori luogo ricostruire l’origine…
Il 15 giugno 1215 a un riluttante Re Giovanni venne “estorta” dai baroni inglesi la firma della Magna Carta, un atto formale in base al quale il Re si impegnava a riconoscere una serie di diritti ai propri vassalli e sudditi, alcuni riferiti al principio di habeas corpus, mentre altri collegati con l’autonomia della Chiesa e con il principio di condivisione delle politiche fiscali, dal momento che l’imposizione di nuove imposte e l’aggravio delle esistenti avrebbe dovuto essere confermato dal voto (a maggioranza) di un “Commune Consilium Regni” formato da nobili, vescovi e abati (cioè, i signori feudali). Nel 1295 a questo Consilium Regni – embrione della successiva House of Lords – si affiancarono 2 cavalieri indicati da ogni contea e 2 uomini liberi per ogni distretto (Royal Borough). Era il “Model Parliament” di Edoardo I Plantageneto, costruito ispirandosi al precendente “Parlamento di De Montfort” del 1265.
A partire dal XIV secolo si affermò l’abitudine che i membri del vecchio “Commune Consilium Regni” (cioè i signori feudali) e gli uomini liberi borghesi (cioè i non nobili, i “comuni”) si riunissero separatamente (tranne che in presenza del Re) e quindi in questo possiamo individuare l’origine della House of Commons. La “Camera dei Comuni” eletta in base a principi di rappresentanza territoriale e certo non politica o partitica, visto che – nel Medioevo – i partiti strutturati non esistevano ancora.
Nel XIX secolo vi furono diversi Atti del Parlamento che modificarono le circoscrizioni elettorali ed estesero il suffragio mentre a Westminster si andava consolidando e istituzionalizzando la natura bipartitica della competizione politica, grazie al progressivo affermarsi della figura del First Lord of the Treasury quale “Primo Ministro” e capo della maggioranza parlamentare. Questa ristrutturazione della politica attorno alla main issue del sostegno/opposizione al governo trovò una propria configurazione nelle competizioni territoriali di collegio, dove in ogni constituency si confrontarono un candidato “governativo” e uno espressione della principale forza parlamentare di opposizione (Tory o Whig a seconda del caso), declinando nel medesimo confronto temi connessi con la rappresentanza locale e una visione politica generale.
Lo stretto legame esistente tra eletto e territorio di elezione non è un retaggio del passato. Tuttora alla Camera dei Comuni (ma anche nel Congresso USA) il candidato si presenta sempre nel medesimo collegio e – una delle consuetudini del parlamentarismo inglese – i deputati con poca anzianità parlamentare intervengono nei dibattiti in aula essenzialmente per manifestare esigenze o criticità della constituency di elezione. Cioè continuano a rappresentare il territorio, non solo il partito che li ha espressi.
D’Alimonte valuta la qualità della rappresentanza sulla base della somma complessiva dei voti di ogni partito e del rapporto esistente tra questa somma e il numero di seggi ottenuti. E’ un calcolo del tutto incomprensibile per la mentalità britannica. Quello che conta nel sistema inglese – piaccia o no – non è “quanti” voti prendi, ma quanta parte del territorio del Regno ti sostiene, cioè in quanti collegi riesci a spuntarla. Tra proporzionale con premio e plurality system britannico passa un po’ la differenza che intercorre tra il calcio e il tennis. Nel calcio vince chi fa più reti nell’arco di 90 minuti o – talvolta – dopo i supplementari (il ballottaggio). Nel tennis invece vince il set il primo che arriva a 6 game. E a nessuno importa se i tuoi game li vinci tutti dopo essere stato 40-40 e li perdi tutti 40-15, così l’avversario fa più punti di te…
La rappresentanza politica, quindi, può focalizzarsi sulla valorizzazione dei bisogni territoriali delle città e dei distretti oppure sull’enfatizzazione del monopolio partitico della competizione, sono due visioni e due percorsi diversi, leciti entrambi. Ma il confonderli e pasticciarli, quello è imperdonabile. Certamente è possibile cercare delle vie intermedie tra i due modelli. Vie intermedie che non sono certo l’Italicum o altri sistemi a premio di maggioranza (tutti focalizzati sulla centralità dei partiti rispetto ai territori) ma – piuttosto – modelli come quello tedesco (50% uninominale di collegio, 50% voto di lista con sbarramento) o come il compianto Mattarellum (75% uninominale di collegio, 25% proporzionale su liste bloccate e sbarramento).
E – soprattutto – è consigliabile evitare trionfalismi Italici irridendo un sistema e una democrazia che quest’anno compie 800 anni di vita e la cui esperienza e le cui tradizioni meritano reverenza e rispetto, anche se oggi possono apparire in difficoltà. Il Parlamentarismo britannico (e il sistema elettorale che lo legittima) sono stati per secoli un faro di civiltà, un punto di riferimento universale. Tra 800 anni vedremo il giudizio storico che verrà dato sull’Italicum, sulla classe politica che lo ha voluto e – magari – sul professore che lo ha inizialmente disegnato…
Di certo, sarà un trionfo.
Marco Cucchini | Poli@rchia (c)