Il fottuto storytelling

Il fottuto storytelling

Le ragioni per cui la scrittura giornalistica italiana è diventata – nella sua parte maggiore e più vistosa – così povera, banale, conformista e così poco “giornalistica” sono, pare a me, fondamentalmente due. Una è una necessità sempre più pressante e trasparente di chi scrive di manifestare se stesso attraverso la scrittura: è una cosa che ha a che fare con unapiù estesa questione di insicurezze individuali e modelli competitivi nelle nostre società che influenza anche chi scrive articoli, la ricerca di affermazione di sé generata dal timore dell’insignificanza e dal bisogno di essere riconosciuti, notati, semplicemente visti. Nella scrittura giornalistica si traduce nella ricerca di artifici e virtuosismi che ricordino al lettore che non sta semplicemente leggendo di fatti, notizie e informazioni: ma che sta leggendo di qualcuno (io, me, l’autore!) che gli offre quei fatti, notizie e informazioni. Moltissimi autori credono che la loro capacità di “scomparire” non sia – come è – la dote migliore della gran parte del giornalismo che informa e spiega (e assai difficile da esercitare con sapienza), ma anzi una minorazione di sé e del proprio lavoro. In rari casi di talento – la vanità può anche essere un ottimo motore di qualità e buoni risultati, in tanti contesti diversi – questo si traduce nella produzione di una scrittura memorabile, affascinante, originale, in cui l’autore crea e governa la forma con cui racconta e la adegua perfettamente al racconto (sto parlando di forma e scrittura, non di scrivere di sé nei contenuti, che è un’altra storia). Ma nella quasi totalità si traduce invece nel ricorso a modelli banali e conosciuti, impostazioni routinarie, clichés, frasi fatte, regolette pigre e parole inutili o considerazioni superflue. E autocompiacimenti volatili, di qualche secondo, e fastidi del lettore che vuole sapere le cose.

Poi c’è un’altra deriva che si è impossessata da tempo di una quota esorbitante del giornalismo: è il fottuto storytelling.
L’idea che si debba “costruire una storia” è un’intuizione che da almeno un paio di decenni si è diffusa in moltissimi ambiti della produzione culturale e della comunicazione di ogni tipo: e la parola “storytelling” (insieme alla versione della “narrazione”) è stata abusata e inflazionata e strumentalizzata dagli usi più biechi o banali – cosa c’è che suoni più bello di “raccontare una storia”? – tanto che i suoi primi promotori stessi hanno cominciato a vergognarsene e prenderne qualche distanza. Ma nel frattempo, da luoghi che avevano nella loro essenza stessa l’idea dell’invenzione, dell’artificio, della fantasia, dell’inganno – letteratura, cinema, pubblicità, comunicazione politica, eccetera – il fottuto storytelling è traboccato là dove ha ribaltato un’essenza stessa che era completamente opposta: quella della ricostruzione più fedele possibile della realtà e del mondo così come sono. Il giornalismo. Il campo della scrittura in cui la storia, nella sua grande sostanza, c’è già.

Certo, ci sono delle ambiguità nell’espressione “raccontare una storia”: tutta una scala di grigi tra il raccontarla e il costruirla. Ma è un fatto che l’interpretazione dello storytelling da parte del giornalismo italiano da molti anni è tutta sbilanciata sul grigio scuro. Sul COSTRUIRLA, la storia: all’inizio con l’alibi che i lettori dovessero essere attratti e serviti con un lavoro di adattamento e completamento dei fatti, ma poi senza più nessun alibi, privilegiando quasi solo la confezione e poco l’esposizione e valutazione dei fatti.
Il giornalismo “divertente”, come dissero di noi gli americani già molti anni fa.
E ormai predicato come “nuova frontiera” (fate il conto di quanti articoli dei quotidiani oggi comincino con una vecchia e preziosa lezione: il fatto di cui si sta parlando spiegato nelle prime cinque righe), come se l’antica pratica del giornalismo narrativo e dei reportage non avesse una ragione per essere applicata con sapienza solo rispetto a determinate occasioni e tipi di storie.

Queste cose le ha descritte un mese fa anche Federico Ferrazza, direttore di Wired italiano,in un suo post rispetto a un tratto di questa tendenza.

Sta di fatto che non si scrivono più articoli, si raccontano storie. La questione potrebbe essere archiviata come un vicenda lessicale. Ma nasconde qualcosa di più profondo che ha a che fare non tanto con i nuovi formati del giornalismo, ma con i contenuti con cui riempiamo questi formati. (…)
Da quasi 30 anni la frantumazione delle classiche aggregazioni sociali (sono rimaste solo le lobby e le associazioni di categoria a tenere un po’) ha contribuito a una difficile lettura del mondo da parte di quotidiani e periodici, di tg e di programmi televisivi di approfondimento giornalistico. (…)
A compensare questa mancata capacità di lettura del mondo, è poi arrivata la formula magica del raccontare una storia, dello storytelling. Come dire: la realtà si è molto complicata e quindi te ne racconto solo una parte. Bene, benissimo. Ma la questione è che le storie che oggi leggiamo non son sempre raccontate come quello che sono (nella maggior parte dei casi), cioè come storie uniche.
Molto spesso, infatti, una sola storia viene fatta passare come una tendenza universale, un esempio di molti altri simili.

Non è più del mondo intorno a noi – com’era, com’è e come sarà – che leggiamo. È un’altra cosa, spacciata con la scusa dello storytelling. E come dice Vincenzo Latronico:

C’è un senso in cui “storytelling” è un’espressione appropriata per tutto questo. È il senso in cui si dice che uno “racconta storie” per dire che sta mentendo.

Autore: Luca Soffri | Fonte: ilpost.it

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