In queste ore di angoscia e dolore collettivi ho cercato conforto nella Storia e mi sono dedicato, in particolare, al ricordo di quei giorni di febbraio del 313 quando “noi, Costantino Augusto e Licinio Augusto, giungemmo sotto felice auspicio a Milano ed esaminammo tutto quanto riguardava il profitto e l’interesse pubblico“.
La notte degli attentati a Parigi ho riletto infatti il testo dell’Editto di Milano che concedeva universale libertà di culto a tutti i sudditi dell’Impero, compresi i cristiani. Un editto di profonda umanità e tolleranza, scritto con un tono sorprendentemente modesto, considerato che i due Augusti erano i “reggitori del Mondo”. Dei due la figura dominante era certo quella di Costantino, che coniugava in sé i talenti del generale, del legislatore e dell’organizzatore e in breve assunse un ruolo di preminenza rispetto al collega Licinio, tipico prodotto del generalato provinciale di basse origini, con il suo collo taurino e i suoi modi bruschi.
Nel 312 Costantino vincitore su Massenzio nella battaglia di Ponte Milvio aveva chiuso il periodo delle guerre civili post Diocleziano e nell’urgenza di una pacificazione generale dell’Impero decise di affrontare anche la questione religiosa, magari ancora sotto l’effetto del sogno – forse vero, forse no – del “in hoc signo vinces” ponendo fine alla discriminazione giuridica nei confronti dei cristiani, per i quali simpatizzava senza ostentazione.
Ed ecco l’Editto di Milano. Monumento di tolleranza religiosa e di lungimiranza politica, il cui principio cardine è la libera scelta del singolo:
“dev’essere data all’intelletto e alla volontà di ciascuno facoltà di occuparsi delle cose divine, ciascuno secondo la propria preferenza, avevamo ordinato che anche i cristiani osservassero la fede della propria setta e del proprio culto”
E in questa libertà lo Stato non mette il naso, preoccupandosi solo del rispetto delle leggi terrene ma confidando che la fede di tutti nel Dio che scelgono sia una fonte di ricchezza e di stabilità per l’Impero nel suo insieme:
“abbiamo stabilito di emanare editti con i quali fosse assicurato il rispetto e la venerazione della Divinità: abbiamo, cioè, deciso di dare ai cristiani e a tutti gli altri libera scelta di seguire il culto che volessero, in modo che qualunque potenza divina e celeste esistente possa essere propizia a noi e a tutti coloro che vivono sotto la nostra autorità […] Abbiamo fatto questo perché non sembri a nessuno che qualche rito o culto sia stato da noi sminuito in qualche cosa.”
Il principio dello Stato neutrale rispetto alle cose religiose. Dell’uguaglianza religiosa presupposto della tranquillità pubblica e della stabilità politica. Principi che nel corso dei secoli l’Occidente perderà per ritrovare solo nel XIX° secolo e che in qualche parte del Pianeta non esistono ancora. E’ questo principio che porta Costantino a favorire una sorta di sincretismo imperiale, avvicinando il più possibile il culto del Sol Invictus (cioè la sua religione) con quello del Cristo ed è sul finire della sua vita – nel 336 – che per la prima volta le festività del Sole e del Natale vengono fatte coincidere nello stesso giorno, il 25 dicembre.
Questa vicinanza tra le due religioni venne confermata anche dall’istituzione del giorno di riposo festivo (“giorno del signore” o Dies Solis), che è la nostra domenica. Stabiliva infatti Costantino nel 321:
Nel venerabile giorno del Sole, si riposino i magistrati e gli abitanti delle città, e si lascino chiusi tutti i negozi. Nelle campagne, però, la gente sia libera legalmente di continuare il proprio lavoro, perché spesso capita che non si possa rimandare la mietitura del grano o la cura delle vigne; sia così, per timore che negando il momento giusto per tali lavori, vada perduto il momento opportuno, stabilito dal cielo.
In realtà la tolleranza e l’intelligenza politica di Costantino non sono il prodotto eccezionale e unico di un’epoca cupa. Sono il retaggio di tutta una tradizione di realismo politico e tolleranza che origina ai tempi di Augusto e all’edificazione del Pantheon. In Costantino converge una pluralità di suggestioni, tradizioni e consuetudini politiche e in questo il suo regno è simile all’Arco che lo ricorda. Ho letto da poco infatti su un altro blog che quel mirabile ornamento del foro non è un prodotto del tutto originale, ma contiene in sé elementi provenienti da contesti e opere diverse. E’ una somma di stili, una stratificazione di suggestioni ed esperienze, così come la visione politica di Costantino.
Assai diverso è invece il successivo fondamentale Editto. Quello di Tessalonica. Emanato il 27 febbraio 380 da Teodosio, Graziano e Valentiniano aveva un tono e una visione totalmente diversa. Il tempo della tolleranza imperiale era finito.
“Vogliamo che tutti i popoli che ci degniamo di tenere sotto il nostro dominio seguano la religione che san Pietro apostolo ha insegnato ai Romani, oggi professata dal Pontefice Damaso e da Pietro, vescovo di Alessandria, uomo di santità apostolica; cioè che, conformemente all’insegnamento apostolico e alla dottrina evangelica, si creda nell’unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in tre persone uguali. Chi segue questa norma sarà chiamato cristiano cattolico, gli altri invece saranno considerati stolti eretici; alle loro riunioni non attribuiremo il nome di chiesa. Costoro saranno condannati anzitutto dal castigo divino, poi dalla nostra autorità, che ci viene dal Giudice Celeste.”
E’ tutta un’altra aria. Il linguaggio è pesante, tetro e superbo. Al centro dell’Editto non c’è la ricerca del benessere per i sudditi, ma la manifestazione autoritaria della volontà imperiale (“degniamo di tenere sotto il nostro dominio“). Compaiono vocaboli sinistri come “eresia” e “castigo divino” ed emerge l’obbligo della sottomissione, con le pesanti conseguenze che i successivi decreti teodosiani (392) stabiliranno.
La Religione che si fa stato – conseguenza forse inevitabile dei culti monoteisti – che recano in sé inevitabilmente il germe del totalitarismo spirituale. E’ finito il tempo delle divinità maschili e femminili, del Pantheon con diversi Dei ciascuno dei quali specchio di una diversa virtù. E’ iniziata l’era del Dio Unico.
Fondamentale in questo l’opera zelante e fanatica di Sant’Ambrogio. Il Vescovo di Milano – non solo grande teologo ma anche abilissimo politico – maneggia con costanza e con caparbietà la suggestionabile mente di Teodosio instillando in lui il principio della distruzione dei templi, delle persecuzioni dei pagani (definiti dal vescovo nelle sue Epistole come “creature del maligno” e “nemici del genere umano“), delle sovvenzioni pubbliche alla Chiesa (l’8×1000 ha radici antiche…), spaventandolo con il dito alzato e intimandogli che “Un Imperatore Cristiano non può onorare che l’altare di Cristo“.
Esemplificativo dello spirito dei tempi fu la vicenda dell’Altare della Vittoria. Fatto edificare da Augusto fu posto al centro del Senato nel 29 a.C. e lì rimase, simbolo marmoreo delle glorie imperiali e della Fortuna romana. Rispettato da tutti gli Imperatori succedutisi, anche i più stravaganti. Rimosso su ordine di Costanzo nel 357, ristabilito da Giuliano e mantenuto da Valentiniano fu nuovamente rimosso da Graziano. Ne nacque una polemica e Quinto Aurelio Simmaco – in rappresentanza della maggioranza pagana del Senato – pregò l’Imperatore di ripristinare l’Altare, ricordando come esso avesse protetto lo Stato nei tempi più bui e come – con i barbari alle porte – non fosse il caso di indisporre le Divinità, quali esse fossero. E da Simmaco viene un’ultimo appello alla tolleranza religiosa che aveva animato Costantino:
“Quel che da tutti è venerato, è giusto considerarlo uno stesso ed unico essere. Noi guardiamo gli stessi astri, il cielo è comune a tutti, lo stesso universo ci circonda: che importanza ha la filosofia attraverso la quale ogni uomo cerca la verità?
Non si può approdare ad un mistero così grande attraverso una sola strada”
Ma l’iperattivo e onnipresente Ambrogio si mise nel mezzo, ricordando all’Imperatore che non era ammissibile che nel Senato vi fossero simboli pagani. L’ebbe vinta – nuovamente – e non solo l’Altare non venne ripristinato, ma poco tempo dopo fu addirittura distrutto (402) su iniziativa del figlio di Teodosio, l’insulso Onorio. Nel 410 Roma veniva saccheggiata dai Barbari, per la prima volta dopo 800 anni.
Forse Simmaco aveva ragione: rimuovere l’Altare e darla vinta ai preti portava jella. Ambrogio era già morto da qualche anno e dunque non sappiamo come avrebbe interpretato il mutato favore del Cielo verso il nuovo Impero Cristiano. Probabilmente avrebbe trovato il modo di incolpare i pagani, perché una delle caratteristiche eterne del fanatismo è l’assenza di autocritica…
Marco Cucchini | Poli@rchia (c)
P.S. Questo post è rispettosamente dedicato a tutte le vittime del fanatismo religioso ovunque si trovino e in particolare agli abitanti di Lutetia – tanto amata da Giuliano l’Apostata – e di Palmyra, che quotidianamente hanno sotto gli occhi le glorie della civiltà passata e gli orrori del presente.