Le elezioni del 20 dicembre scorso hanno rottamato lo storico bipartitismo spagnolo, aprendo ad uno scenario politico inedito e, per molti versi, incerto. L’irruzione di nuove forze, come Podemos e Ciudadanos, nella scena politica, ha, infatti, modificato sensibilmente gli equilibri politici del Paese, con i popolari ed i socialisti che, per la prima volta dalla caduta del franchismo, si trovano a fare i conti con la propria insufficienza. E così, tramontata, almeno per il momento, l’ipotesi più accreditata nelle ore immediatamente successive al voto, vale a dire quella di una grande coalizione tra Pp e Psoe, per evitare un nuovo ricorso alle urne, rimarrebbero solo due strade: un governo di minoranza targato Partido Popular o un esecutivo a guida socialista, sostenuto da Podemos, Izquerda Unida e forze autonomiste. I numeri, a tal riguardo, parlano chiaro.
L’asticella della maggioranza assoluta al Congreso de los Diputados è fissata a 176 seggi. Il Partito Popolare ne ha ottenuti 123, il Partito Socialista 90, Podemos 69, Ciudadanos 40, Izquerda Unida 2. Tutto il resto è rappresentanza autonomista ed indipendentista. Nello specifico: Esquerra Republicana de Catalunya (Sinistra Repubblicana di Catalogna) con 9 deputati, Democràcia i Libertat (Democrazia e Libertà), il partito del premier catalano uscente Artur Mas, con 8 deputati, i baschi di Euzko Alderdi Jeltzalea (Partito Nazionalista Basco) con 6 deputati e quelli di Euskal Herria Bildu (Il Meglio del Paese Basco) con due deputati. A questi va aggiunto il deputato del Partido Nazionalista Canario (Coalizione delle Isole Canaria).
Per adesso, comunque, l’unico dato certo è il niet di Pedro Sanchez, leader del Psoe, ad un nuovo governo guidato dal premier uscente Mariano Rajoy, nonostante lamoral suasion tentata dal re Felipe VI in queste settimane. Circostanza che ha spinto un alto dirigente del Partido Popular a dichiarare laconico: “Lo scenario più probabile in questo momento, con una percentuale più alta di tutti gli altri, è che ci stiamo muovendo verso altre elezioni generali”. Sono in molti a pensare, tuttavia, che il riferimento ad elezioni anticipate sia usato, in queste ore, dai popolari come spauracchio verso i socialisti, che, da un’altra consultazione elettorale avrebbero solo da perdere. È convinzione di Rajoy e del suo partito, infatti, che le esigenze del Paese impongano di “fare di necessità virtù”, formando un governo largo in grado di “fare le riforme” e di “lanciare un ottimo messaggio di solidità ai mercati”, dunque che i socialisti possano ritornare sui loro passi.
Lo scorso 28 dicembre, però, il Comitato federale del Psoe ha approvato una risoluzione in cui è stata ribadita sia l’indisponibilità a formare un governo di larghe intese, sia la pregiudiziale, già espressa in campagna elettorale, nei confronti di Podemos. Nei rapporti con quest’ultimi, più che ragioni di natura ideologica, peserebbe il diverso approccio al tema dell’unità del Paese. In particolare, i socialisti sarebbero fortemente contrariati dalla proposta del partito di Iglesias di affidare ad un referendum popolare la risoluzione della questione catalana e, più in generale, della futura forma di stato. Ma sull’ipotesi di un’alleanza di governo con la sinistra radicale, non tutti la pensano allo stesso modo dentro il Psoe. A cominciare dallo stesso Sanchez, che, non per niente, ieri ha incontrato a Lisbona il premier lusitano Antonio Costa. Una visita dall’alto valore simbolico, viste le similitudini tra l’attuale quadro politico spagnolo e quello venutosi a creare in Portogallo all’indomani delle elezioni dello scorso 4 ottobre. Una soluzione “portoghese” per il nuovo governo di Madrid? La strada si presenta molto stretta, ma, almeno in teoria, non del tutto impraticabile.
Intanto, proprio nell’entourage del giovane leader socialista si parla con insistenza di “parallelismo tra Lisbona e Madrid” e della possibilità che la situazione “finisca come in Portogallo”, con un’alleanza tra le forze progressiste “per sbarrare il passo ad un governo della destra”. Lo stesso Sanchez, prima di partire per Lisbona, si era lasciato andare alla considerazione che “il risultato delle urne in Spagna riflette una realtà molto simile a quella portoghese, con una composizione plurale del Parlamento che porta inevitabilmente ad una fase di dialogo”, prevedendo che “questo dialogo potrebbe anche concludersi con una soluzione simile a quella cui si è giunti in Portogallo, nel rispetto del responso elettorale”. Poi, dopo il faccia a faccia con il premier portoghese, è stato ancora più esplicito: “Lo ripeto: dico no alla grande coalizione proposta dal Partido Popular. Se Mariano Rajoy non riuscirà a formare un governo, dirò sì ad una grande coalizione per un governo progressista in Spagna”. Non a caso con Antonio Costa avrebbe parlato di come il governo portoghese si starebbe muovendo per rivalutare le pensioni, per aumentare il salario minimo, per riequilibrare la pressione fiscale a favore delle classi popolari, per dare più sostegno alle famiglie.
Similitudini e differenze. Javier Martìn, sul quotidiano El Pais, ironicamente ha scritto: «Costa potrà spiegare a Sanchez come si negozia a quattro mani e senza foto di rito; però Sanchez potrà ricordargli che in Portogallo non ci sono nazionalismi, né partiti che chiedono referendum in Catalogna». Ma Iñigo Errejon, numero due di Podemos, sull’argomento si è espresso così: “Chi non capisce che siamo un paese di paesi non sarà in grado di costruire fraternità e un progetto condiviso”, esortando i socialisti al dialogo. Pronto al dialogo anche Alberto Garzón, leader di Izquerda Unida, che ha fatto sapere di essere d’accordo a formare una maggioranza di governo con Psoe e Podemos, “incluso” Ciudadanos, se necessario. Nel frattempo, comunque, Sanchez ha incassato il via libera della sua principale oppositrice dentro il partito, la presidente della Junta de Andalucía e segretaria generale del Psoe nella stessa comunità autonoma, Susana Díaz. Con “un limite chiaro, però”, ha tenuto a precisare la stessa, riferendosi alla questione dei rapporti tra Stato centrale e autonomie. Nell’ipotesi di un governo delle sinistre, sarebbe invece orientato all’astensione il movimento di Albert Rivera Ciudadanos, “anche se Podemos rinunciasse al referendum per la Catalogna”.
Ma il calendario che dice? L’insediamento del nuovo parlamento è previsto per il 13 gennaio. Subito dopo inizieranno le consultazioni del re, che si concluderanno con la nomina del nuovo primo ministro. Quest’ultimo dovrà ottenere la fiducia del parlamento, con maggioranza assoluta in prima votazione, semplice in seconda, dopo 48 ore. Il tutto dovrà concludersi in due mesi, pena lo scioglimento del parlamento ed il ricorso a nuove elezioni.
Autore: Luigi Gandolfi | Fonte: huffingtonpost.it