La rabbia è diventata un elemento caratterizzante della politica moderna. Negli Stati Uniti, per esempio, molti elettori conservatori sono arrabbiati per la riforma sanitaria di Obama e per quella che considerano una linea morbida del governo sull’immigrazione. Molte persone di sinistra invece sono arrabbiate per le disuguaglianze economiche, per le leggi che favoriscono la diffusione delle armi da fuoco e per le istituzioni che a loro modo di vedere perpetrano discriminazioni sulla base del genere, del colore della pelle e dell’orientamento sessuale. In entrambi gli schieramenti, poi, diverse persone ce l’hanno sia con la fazione opposta che con la classe dirigente del proprio partito, che considerano poco ricettiva alle preoccupazioni dei cittadini. Questa ondata di rabbia ha favorito le inattese candidature di Donald Trump e Bernie Sanders alla presidenza. Entrambi hanno promesso una rivoluzione politica − benché molto diverse tra loro nella forma − per riportare l’America alla propria grandezza. Trump in particolare ha sfruttato la rabbia contro gli immigrati e le esternalizzazioni di posti di lavoro diffusa tra le persone che sentono di essere state lasciate indietro dall’economia globale. Secondo diverse ricerche gli elettori conservatori sono più inclini alla rabbia, e ci sono prove che dimostrano come Trump sia capace di incanalare quella rabbia più di altri candidati.
Ma in che modo la rabbia influenza la psicologia politica degli americani? Decenni di ricerca psicologica mostrano come la rabbia plasmi in profondità la visione del mondo delle persone e la loro percezione dei conflitti. La rabbia non riflette soltanto la frustrazione degli elettori per la politica: contribuisce attivamente a estremizzarne la polarizzazione. È un pensiero comune, infatti, che in generale la rabbia non aiuti a prendere le decisioni migliori. Quando siamo arrabbiati tendiamo a pensare in modo avventato, ad arroccarci sulle nostre posizioni, a essere troppo sicuri di noi e in ultima istanza a fare cose sbagliate. La rabbia spinge le persone a osservare la politica attraverso la lente dello scontro invece che attraverso quella della cooperazione. Il professor Leaf Van Boven, della facoltà di psicologia e neuroscienze della University of Colorado, ha di recente pubblicato i risultati di diversi esperimenti che evidenziano i sottili ma pericolosi effetti della rabbia.
L’esperimento
Abbiamo messo insieme un campione eterogeneo di 300 americani, a cui abbiamo chiesto di partecipare a uno studio online. Abbiamo chiesto loro di misurare la loro appartenenza politica con una scala numerica (per esempio: quanto ti identifichi con il Partito Repubblicano? 1 = per niente, 7 = molto). Abbiamo poi chiesto ai partecipanti di descrivere eventi o situazioni della loro vita che suscitavano in loro un’emozione. In maniera casuale, a un gruppo è stato chiesto di descrivere situazioni che provocavano un sentimento di rabbia, per esempio non riuscire a trovare lavoro; a un altro gruppo invece è stato chiesto di descrivere eventi tristi, come la morte di una persona cara; abbiamo poi chiesto a un gruppo di controllo di descrivere cosa avessero fatto il giorno prima, per esempio andare a fare la spesa.
Abbiamo quindi chiesto ai partecipanti allo studio di pensare alla sparatoria in cui nel 2011 un ragazzo di nome Jared Lee Loughner uccise sei persone e ferì gravemente alla testa una deputata Democratica, Gabrielle Giffords. Abbiamo ricordato ai partecipanti come gran parte del risentimento popolare, dopo la sparatoria, fosse rivolto alla retorica aggressiva della Repubblicana Sarah Palin, che durante la sua campagna elettorale aveva mostrato una mappa in cui venivano identificati con un mirino alcuni politici che avevano votato a favore della riforma sanitaria di Obama, tra cui Gabrielle Giffords. Abbiamo chiesto al campione di valutare quanto fossero d’accordo con la frase: “Sarah Palin ha contribuito a creare un clima di violenza politica che potrebbe aver causato episodi di violenza come la sparatoria in Arizona”. Le persone a cui era stato chiesto di pensare a eventi che suscitavano rabbia sono risultate notevolmente più polarizzate rispetto agli altri due gruppi. Nello specifico, tra queste persone quelle che più si identificavano con il Partito Repubblicano sono state quelle in maggior disaccordo con l’idea che Palin potesse avere incitato alla violenza. Per le persone che avevano descritto eventi tristi e per quelle nel gruppo di controllo, la correlazione tra il livello di identificazione come Repubblicani e il rifiuto della nozione che Palin possa avere alimentato un clima di violenza è stata considerevolmente minore .
La rabbia fa sembrare Democratici e Repubblicani più divisi di quanto lo siano veramente
Questa cosa non succede solo alle persone che ripensano a momenti intensi della vita. I candidati alle primarie americane stanno alimentando attivamente la rabbia degli elettori, e gli elettori arrabbiati sono attirati dai candidati arrabbiati. Bernie Sanders dice sempre di essere «arrabbiato, e milioni di americani sono arrabbiati», e anche Trump sottolinea spesso di essere «molto, molto arrabbiato». La rabbia dei candidati e l’incitamento a provare rabbia intensificano l’atteggiamento già polarizzato degli elettori.
Nell’esperimento sulla sparatoria di massa abbiamo chiesto ai partecipanti di valutare quanto un politico Democratico e Repubblicano medio sarebbe stato d’accordo con la nozione che Palin avrebbe incitato alla violenza. Tra i partecipanti “arrabbiati”, chi si identificava di più come Repubblicano ha percepito una separazione maggiore tra la posizione media di un Repubblicano e un Democratico. In altre parole, la rabbia polarizza le posizioni dei Repubblicani più convinti e anche la divisione tra Repubblicani e Democratici.
Il fatto che la rabbia abbia spinto gli elettori Repubblicani più conservatori a credere che gli Stati Uniti siano più polarizzati – e cioè che le persone abbiano opinioni più lontane di quanto sia in realtà – è importante. Un altro studio condotto durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2008 mostra che gli americani che avvertivano una forte polarizzazione nel sostegno per Barack Obama e John McCain avevano maggiori possibilità di dichiarare l’intenzione di andare a votare. Altre prove raccolte recentemente dimostrano che negli ultimi quarant’anni le persone hanno avuto maggiori probabilità di finanziare le campagne elettorali, votare e partecipare alle campagne quando percepivano una maggiore divisione tra Democratici e Repubblicani su una serie di temi diversi. In pratica la rabbia porta le persone a essere più polarizzate, a vedere più polarizzazione, e quindi a impegnarsi di più politicamente.
Di sicuro gli americani hanno molte ragioni per essere arrabbiati. Le difficoltà del paese sono vere e le frustrazioni dei cittadini sono perfettamente comprensibili. Non c’è dubbio che molti americani della classe media facciano fatica a trovare un lavoro ben retribuito e gratificante. L’immigrazione è un problema vero per il paese. Ma non c’è un’alternativa meno distruttiva della rabbia?
La tristezza unirebbe di più gli americani?
È possibile. A differenza della rabbia, la tristezza suscita una riflessione attenta e misurata intorno a problemi complessi; porta a focalizzarsi su come superare le difficoltà invece che sull’attribuire le colpe. Nell’esperimento sulla sparatoria di massa, per esempio, le persone che hanno provato tristezza hanno avuto una reazione meno radicale, e anche la percezione della radicalizzazione tra Democratici e Repubblicani è risultata minore.
Nel film Inside Out alla fine è Tristezza, e non Rabbia, che risolve la situazione: quando la protagonista esprime la sua tristezza i suoi genitori riescono a riconoscere e condividere la sua sofferenza. Come hanno scritto Dacher Keltner e Paul Ekman, che si occupano di ricerca sulle emozioni e hanno lavorato come consulenti per il film, «inInside Out come nella vita reale la tristezza spinge le persone a unirsi in risposta a una perdita».
Il fatto che la tristezza collettiva possa ridurre la polarizzazione è dimostrato anche da una serie di studi condotti in Israele. I cittadini ebrei di tutte le posizioni politiche − sinistra, destra o centro – hanno valutato quanto avrebbero voluto sentirsi tristi durante il Giorno del Ricordo nazionale, in cui vengono commemorati i soldati caduti e le vittime del terrorismo. Gli israeliani che hanno ritenuto importante essere parte della società israeliana hanno scelto una tristezza “di gruppo”, nella convinzione che la tristezza avrebbe unito di più gli israeliani.
A volte le persone sembrano capire come la tristezza sia in grado di unire un paese politicamente diviso. Per trovare notizie tristi basterebbe dare ogni giorno una rapida occhiata ai titoli dei giornali. Cosa deve succedere perché le persone abbraccino la tristezza, che unisce, invece che crogiolarsi nella rabbia, che causa solo divisioni?
Leaf Van Boven è un professore della facoltà di psicologia e neuroscienze della University of Colorado a Boulder; David Sherman insegna alla facoltà di psicologia e scienze del cervello alla University of California a Santa Barbara; Peter Ditto è un professore della facoltà di psicologia e comportamento sociale della University of California a Irvine.
© 2016 − The Washington Post | Leaf Van Boven, David Sherman, Peter Ditto