Julian Nida Rümelin. Un’intervista de ilmanifesto.info con il filosofo già ministro della cultura durante il governo della Spd e autore del saggio «Democrazia e verità», pubblicato da Franco Angeli. Nella crisi della rappresentanza politica, va ricercato un nuovo equilibrio tra costruzione del consenso e economia di mercato, evitando l’adesione a principi totalizzanti.
L’idea di cosa sia una democrazia appare offuscata da interessi di carattere tecnocratico, che alla prassi parlamentare oppongono l’esigenza e la necessità di un governo di esperti. Questo fenomeno, oltre al rischio di sfociare in nuove forme di autoritarismo, pone una questione fondamentale, ovvero quella di comprendere fino a che punto la democrazia nella sua forma parlamentare sia in grado di mantenere e difendere le proprie pretese di verità, non solo sul piano normativo ma anche sul piano empirico. Abbiamo intervistato Julian Nida Rümelin, uno dei più conosciuti intellettuali in Germania, ex ministro della cultura nel primo governo del socialdemocratico Gerhard Schröder, professore ordinario di filosofia e teoria politica alla Ludwig Maximilian Universität di Monaco, e autore di numerosi saggi di teoria politica, tra i quali Democrazia e verità(Franco Angeli editore, pp. 128, euro 17), il suo primo libro tradotto in Italia.
In «Democrazia e verità» il tentativo è di individuare una convergenza fra la dimensione filosofica e la dimensione politica associando i due termini. Quello di verità appare tuttavia un concetto che fa appello ad un qualcosa di incontrovertibile, e sembra conciliarsi difficilmente con l’idea della democrazia, dove invece tutto sembra essere in discussione, dove qualsiasi argomentazione può essere capovolta e niente è certo e garantito. Come spiega questo legame?
Quello che lei ha menzionato è effettivamente un concetto di verità forte e assoluto, nei confronti del quale ho alcune riserve. Credo sia sufficiente riferirsi a una realtà che non sia costituita esclusivamente dai nostri pensieri, concetti e percezioni, dai nostri modi di comunicare e interagire, per comprendere come noi non abbiamo bisogno di un concetto forte di verità. Bisogna separare la verità dal «certismo», cioè quel pensiero che identifica la verità con un fondamento indiscusso. Il mio concetto di verità è in questo senso pragmatico.
La discussione circa le pretese di verità in politica è ipotecata da una tradizione di pensiero che collega tra loro verità e certezza in maniera troppo stretta. Secondo questa concezione, chi ha pretese di verità deve poter dire perché è sicuro che le cose stanno in quei termini e non in altri. Nella ricerca di questo fondamento sicuro su cui garantire le proprie pretese, la gnoseologia moderna ha così prodotto tutta una serie di fondamentalismi, in questo caso nel senso non del fondamentalismo religioso o politico, ma di quanto in inglese viene chiamato foundationalism.
Il razionalismo cartesiano è un fondamentalismo di questo tipo: esso cerca il suo fondamento sicuro nelle pure verità di ragione, un sapere sicuro che deve poter essere dedotto da assiomi. Vi si oppone un’altra forma di fondamentalismo, quella dell’empirismo moderno, le cui origini risalgono anch’esse alla prima modernità, secondo cui ogni conoscenza scientifica si basa esclusivamente sull’empiria.
Ma allora si può fare affidamento su un criterio valido di verità nella pratica politica? Questa viene generalmente intesa come uno strumento di amministrazione dell’esistente, come un’attività di tipo gestionale e non come un discorso teorico che ha a che fare con la verità, del quale può fare benissimo a meno.
In realtà, appoggiandosi ad un criterio di verità di tipo pragmatico la mia teoria è ben attrezzata per poter affrontare quelle che sono in genere le quattro differenti obiezioni all’idea che la politica abbia a che fare con la verità. Innanzitutto l’obiezione che si può ricollegare a pensatori completamente diversi, come per esempio Thomas Hobbes o Carl Schmitt. Il «politico» è inteso qui essenzialmente come la capacità di disporre degli strumenti del potere e anche di svolgere un ruolo pacificatore mediante la concentrazione di tutti gli strumenti del potere nella mano di uno solo.
La seconda obiezione afferma che quanto si presenta come un argomento politico è soltanto un’altra forma del perseguimento di interessi specialmente economici, per cui la pacificazione si produce grazie all’equilibrio tra domanda e offerta sul mercato economico, mediante il trasferimento di beni materiali e immateriali. Le grandi idee, che sono state il motore della politica nella storia dell’umanità, sono così sostituite da interessi perseguibili in modo razionale nel regime imposto dal mercato. Vi è poi una terza obiezione che contrappone alla conoscenza il concetto di identità. Su questa base i valori guida nella politica sono caratterizzati dall’appartenenza a comunità costituite a livello regionale, culturale oppure etnico. Ne deriva che in politica non si tratta in realtà di questioni che investono la conoscenza, bensì l’identità. La quarta obiezione assume che la politica è una forma di cooperazione che può rinunciare a questioni di verità, dato che si basa su ragioni di carattere etico.
L’idea della verità esige un universalismo di fondo, e dunque un consenso, senza il quale, la verità stessa non potrebbe sussistere. Il consenso è dunque proclamato come il traguardo ideale cui ogni democrazia deve auspicare per legittimarsi da un punto di vista normativo. Eppure quella democratica è una forma di governo che, per sua stessa struttura, sembra essere basata più sulla instabilità e sul conflitto che sul consenso, dal momento che estende ed allarga il potere decisionale, lo decentra o lo rende in qualche modo partecipativo, e perciò produce sacche di dissenso, particolarismi, e non universalismi. In che modo il consenso può divenire un elemento costitutivo essenziale e strutturale di una forma di governo democratica?
Il consenso non definisce la verità né empirica né normativa. Nonostante questo ha un ruolo centrale per la democrazia, perché senza consenso le decisioni a maggioranza per sé non hanno nessuna legittimazione. Un’idea di verità come quella proposta dal pragmatismo presuppone che dare e ricevere ragioni contribuisca a raggiungere un consenso, del quale tuttavia non possiamo mai essere sicuri. È il «fallibilismo» ad essere importante per la democrazia, e non il «certismo», la ricerca delle verità certe e garantite.
Un’epistemologia fallibilista è in consonanza con la tolleranza che promana dal rispetto, nel senso consente di riconoscere un argomento anche quando esso non rientra tra i giudizi che si ritiene plausibili. Lo scetticismo nei confronti delle proprie convinzioni appartiene – così come il rispetto verso gli argomenti contrari– al nucleo dell’ethos della scienza moderna. In una società moderna, orientata ai valori dell’illuminismo, questo ethos è radicato nella prassi della comprensione reciproca e connota la comunicazione politica. Il fallibilismofavorisce la tolleranza, il certismo l’intolleranza.
Un altro termine ricorrente, nel rivendicare la legittimità del concetto moderno di ragione, è quello di progresso. Già Jürgen Habermas ha definito la modernità come un discorso incompiuto e ancora valido. Eppure l’idea del progresso sembra essere un’idea morta, divenuta sterile e arida, alla quale nessuno sembra credere più e alla quale nessuno sembra fare più appello, né sul versante liberale né sul terreno dell’antagonismo critico. In che termini è ancora possibile parlare di progresso?
Ho trattato ampiamente il tema del progresso nel mio ultimo volumeHumanistische Reflexionen in uscita presso i tipi di Suhrkamp in Germania. Qui mi limiterò a enunciare solo qualche tesi: non c’è un progresso iscritto nella storia umana. Ma nella misura in cui valgono le prese di posizione normative c’è una definizione implicita di progresso, di uno sviluppo lungo il quale possono realizzarsi norme e valori. L’attuale sistema capitalista è certamente complesso, ma non stabile. La storia non mi sembra arrivata al capolinea. C’è invece attualmente una crisi di legittimità di questo sistema anche a livello globale, perché le promesse centrali sembrano non valere più. Per esempio la promessa che il progresso economico avrebbe coinvolto tutti e non solo il 3% dei più ricchi come avviene negli Usa.
Una caratteristica delle democrazie odierne è la tendenza ad autolegittimarsi non più attraverso l’ottenimento del consenso, ma attraverso nuove forme di autoritarismo governate da lobby di potere di carattere oligarchico ed elitario. In questo scenario post-democratico, in cui il potere decisionale dei cittadini viene limitato per esigenze di mantenimento e di stabilità del sistema. Qual è la sua posizione al riguardo?
C’è effettivamente una sfida autoritaria in corso nelle democrazie odierne. Ma questa sfida è basata sul successo relativo degli stati come Cina, Singapore, Russia e Turchia che combinano un sistema economico capitalista con istituzioni di potere autoritarie. C’è anche una sfida interna rappresentata dall’ascesa dei partiti populisti di destra in Europa e all’emergere di leader autoritari in campo politico.
Questo fenomeno mi sembra essere una reazione alla complessità politica odierna. Se le cose sono complesse, se le decisioni politiche non sembrano essere capaci di risolvere i problemi, l’atteggiamento di una parte della cittadinanza cambia e si affida a personaggi autoritari che propongono semplici ricette. Questo distrugge il processo dialettico verso un’evoluzione e un cambiamento, perché la democrazia non è solo una forma di governo, ma anche una forma di vita. È basata sull’idea di cittadini e di cittadine sufficientemente ragionevoli capaci di comprendere i programmi politici e capaci di rispettarsi nella vita quotidiana. Una democrazia sostanziale è sempre deliberativa non solo nel Parlamento ma anche nella Lebenswelt (mondo della vita). Così intesa la democrazia non è un irrigidimento di procedure, ma è in grado di sostenere governamentalità e progresso allo stesso tempo.