E’ il primo anno che attendo l’inizio di Wimbledon non con la solita trepidazione, ma con malinconia, non solo per le limitatissime chance che il mio idolo ha di portare a casa l’ottava coppa del Graal ma anche perché ho come la sensazione che quei campi perfetti, quel verde impeccabile, quella sobria eleganza siano una specie di fortino assediato dalle passioni irrazionali e violente esplose tutto attorno alle siepi di edera e ai muri di mattoni.
Wimbledon, per quello che rappresenta, per come è organizzato e gestito, per come viene condotto è la perfetta, iconica rappresentazione di quell’Inghilterra che tanto amo e che forse non esiste se non nei miei sogni di italiano di provincia, cresciuto con miti lontani e irraggiungibili. Quel perfetto mix di establishment, conservazione e innovazione che ha reso l’Inghilterra (più che il Regno Unito) un modello inimitabile, da amare incondizionatamente o quasi altrettanto incondizionatamente detestare, ma certo mai ignorare.
Quello che ha reso grande Wimbledon è stata la sua capacità di essere sempre e contemporaneamente così “classico” eppure così aperto al futuro. E’ stato – ad esempio – il primo torneo dello Slam ad avere sul centrale un tetto richiudibile, per andare incontro alle esigenze della programmazione televisiva, così come ha saputo trasformare la propria erba in una sorta di terra battuta, al fine di rendere il torneo nei fatti meno tecnico, ma nell’aspetto uguale a sempre… Il Royal Box poi, viene mantenuto, ma da qualche anno non c’è più l’usanza dell’inchino, tranne quando è presente la Regina (che detesta il tennis e dunque praticamente mai). Insomma, si cambia ma senza dirlo, sottovoce, con sobrietà.
E’ stato questo il segreto della grandezza britannica e delle sue élite, mai particolarmente geniali o creative, ma sempre solide, capaci di interpretare al meglio ciò che fosse conveniente per il loro Paese: cambiare, anche profondamente, salvaguardando però l’involucro, la forma, la tradizione… Carlo I Stuart non va bene? Gli tagliamo la testa ma poi, dopo un po’ di anni, chiamiamo sul trono suo figlio, Carlo II… E anche se è ancora la Regina, con la corona sulla testa, a leggere il programma per l’apertura della sessione parlamentare, è dai tempi di Pitt il Vecchio che quel discorso lo scrive il primo ministro. Ma si finge comunque che tutto avvenga “with Her Majesty’s Pleasure”.
Che ne è stato di quella lungimiranza? Di quella compostezza? Di quell’innovare sempre, rinnegando mai? Cosa diavolo hanno combinato gli inglesi, così sensati e “perbene”? Questo Cameron, ad esempio, che più establishment non si potrebbe: gentry di origine, studi a Oxford, parenti nella City, esperienza nel centro-studi dei Tories. Eppure, guarda lì, che disastro! Prima un referendum sul sistema elettorale (tanto per smontare 3 secoli di bipartitismo), poi il referendum sulla secessione scozzese (tanto per sfasciare il Regno) e ora il disastro Brexit. E questo per non parlare dell’inutile Corbyn o dei parolai come Farange e Johnson, che ora oscillano tra esaltazione e pentimento.
L’Inghilterra rischia di non essere più tale. Un Paese che fu spavaldo e lungimirante ora rischia di rinchiudersi in se stesso, spaventato e incerto sul da farsi. E quindi anche se i prati di Wimbledon sono perfetti, magnifici come sempre. Anche se i giocatori sono vestiti di bianco, come sempre. Anche se il pubblico è composto e sportivo come sempre, questo torneo non è “come sempre”.
E allora guardiamolo con nostalgia e paura questo Wimbledon, il primo “extracomunitario” da 43 anni a questa parte. Paura che anche il perfetto fortino viola e verde possa cadere sotto il peso di una Modernità sempre più egoista, rissosa, chiusa e spaventata. Che ogni punto fermo traballi fino a cadere. E che – come negli incubi peggiori – possa pure esistere un domani senza campi in erba, fragole con panna (pessime) e una Regina a Windsor.
P.S. questo post è rispettosamente dedicato alla memoria dell’onorevole Jo Cox, deputata del West Yorkshire, donna coraggiosa e perbene, vittima di questo mondo di lunatici armati fino ai denti nel quale a noi tutti tocca vivere.
Autore: Marco Cucchini | Poli@archia (c)