La primavera delle illusioni perdute

La primavera delle illusioni perdute

Nelle ultime settimane ho approfondito il tema dei Cento Giorni, grazie a due testi diversi ma per certi versi complementari: “500 giorni. Napoleone dall’Elba a Sant’Elena” di Luigi Mascilli Migliorini [Laterza, 2016] e “I Cento Giorni. O lo spirito di sacrificio” di Dominique de Villepin [Edizioni dell’Altana, 2005].

Quello dei Cento Giorni è un periodo storico che nelle biografie di Napoleone non è mai particolarmente approfondito. Il più delle volte, si passa direttamente dall’Epopea del Ritorno, quando  Napoleone si riprese il trono, sbarcando con un pugno di uomini in Provenza e risalendo a piedi verso Parigi  (la celebre “invasione della Francia da parte di un uomo solo” come scrisse efficacemente Chateubriand) alla fosca tragedia di Waterloo. Quasi che i 2 mesi nel mezzo siano solo un inutile intermezzo. E invece, c’è già tutto lì, come i due testi che ho citato dimostrano.

L’opera di Mascilli Migliorini copre in realtà un percorso più vasto, prendendo l’avvio dagli intrighi che hanno portato Napoleone a diventare “Re dell’Elba” e terminando con gli intrighi che hanno condotto il generale Bonaparte al definitivo esilio di Sant’Elena. Si tratta di un lavoro introduttivo, ma elegante, come lecito attendersi da un autore di riconosciuto prestigio accademico e scientifico non solo in Italia ma anche – cosa meno scontata – in Francia.

In Mascilli Migliorini si trova una cronaca fedele di quei giorni, con un focus più attento su alcuni punti essenziali: il frenetico attivismo durante il “regno” all’Elba, l’entusiasmo del ritorno, la riforma costituzionale dell’Atto Addizionale, il disastro e gli inganni che condussero l’ex imperatore in un isola meno tetra e inospitale di quanto la Retorica della Sofferenza avrebbe poi fatto credere. Mascilli Migliorini descrive bene un clima oscillante tra l’attesa e la rassegnazione, soprattutto a Parigi, una città che nell’arco di appena 25 anni aveva visto in rapida successione: la Monarchia Assoluta, la Monarchia Costituzionale, il Terrore, il Direttorio, la dittatura napoleonica, l’Impero e la Restaurazione. Troppa roba, per una generazione sola. E così, con un certo fatalismo, come racconta Mascilli Migliorini:

“Sui boulevards, nelle prime ore del pomeriggio, i commercianti cominciano a rigirare o staccare le loro vecchie insegne: le api e le aquile riprendono il posto dei gigli borbonici. Ma tutto avviene senza fracasso, senza fretta, quasi si trattasse di mettere a posto qualcosa che è stato messo in disordine. Allo stesso modo le Tuileries, dove, nel palazzo semideserto, c’è chi provvede con discrezione a togliere dalle pareti i ritratti dei membri della famiglia reale, mentre in un altro luogo del potere, il Palais Royal, si pensa di esporre un busto di Imperatore.

Anche de Villepin è una lettura assai godibile. Non essendo un accademico, si può prendere libertà di analisi e di pettegolezzo maggiori di quelle di Mascilli Migliorini e non si tira indietro. Pregevolissima soprattutto la ricostruzione del sottobosco politico, che l’allora segretario generale della presidenza della Repubblica e futuro Primo Ministro può capire forse meglio di chiunque altro, così attenta che talvolta Napoleone sembra quasi essere un “attore non protagonista” di un dramma che lo riguarda solo in parte.

E’ dall’incrocio delle due letture che si capisce meglio perché i Cento Giorni avevano una trama tutto sommato scontata, quasi inevitabile. Napoleone sbarca nel sud della Francia senza un vero piano, sorretto più da sensazioni e istinto che da freddo raziocinio. Oltre ogni aspettativa, il semplice popolo della Francia periferica lo accoglie con gioia e l’arrivo a Parigi è una cavalcata trionfale.

A Parigi però il clima cambia. L’entusiasmo vero scarseggia (tranne che tra i veterani presi a pesci in faccia dall’ottuso governo della Restaurazione), molti notabili si defilano e formare un governo si rivela un’impresa difficilissima: il fidatissimo Caulaincourt agli Esteri, il tremebondo Cambaceres alla Giustizia e l’ex membro del Comitato di Salute Pubblica Lazare Carnot agli interni. Ma la figura chiave del nuovo ministero era l’orrido Fouché, che Napoleone stesso non sapeva decidersi se meritasse il patibolo o le chiavi di casa. La scelta era comunque astuta: tutti e quattro i nomi citati avrebbero dovuto avere le loro ragioni per temere un nuovo rientro dei Borboni: Cambaceres, Carnot e Fouché furono tra i convenzionali che votarono a favore della condanna a morte di Luigi XVI, mentre Caulaincourt fu tra gli esecutori del rapimento del Duca d’Enghien, cugino del Re, prelevato in Germania nel marzo 1804, processato non si sa bene per cosa e fucilato il giorno stesso. Ma Napoleone aveva trascurato il cinismo di alcuni dei suoi ministri (Fouché in testa) e dello stesso Luigi XVIII, uomo pavido ma scaltro, che non esitò a promettere mari e monti a quanti avevano sostenuto “l’Usurpatore” pur di ritornare su quel trono che aveva abbandonato “fuggendo di notte, perdendo le pantofole” come disse l’Imperatore.

Attorno all’Imperatore redivivo va in scena dunque un melodramma politico. Napoleone viene invischiato in interminabili diatribe costituzionali legate alla composizione della nuova Camera Alta (elettiva? nominata? ereditaria?), tenuto sotto scacco dalla nobile pedanteria di Benjamin Constant che cercava di costruire Westminster sulla Senna. Si tengono le elezioni per la Camera dei Deputati e questa finirà per rivelarsi un fritto misto di legittimisti, orleanisti, repubblicani, convenzionali, mentre il solo ingrediente che manca sono i bonapartisti, gli unici che sarebbero serviti per dare un senso al Grande Ritorno. E poi il plebiscito, vinto in modo mediocre e celebrato con la commedia del “Campo di Maggio”, in una giornata interminabile, “piena di vento, di polvere, di calore e di noia”.

E fu proprio al Campo di Maggio che Napoleone compì uno degli errori cruciali dei “Cento Giorni”, un errore di comunicazione, diremmo oggi, quando a un popolo che attendeva rassicurazione sulla natura liberale del regime e bramava solo di rivedere il cappotto grigio e il tricorno si presentò un sovrano con il tocco di velluto nero e le piume bianche, il giustacuore cremisi, il mantello ricamato, il taffettà e le calze di seta. Per dirla con un testimone “speravamo di vedere Napoleone e invece ci trovammo davanti il Re di Quadri”.

51_ Napoleon on the ___Champ du Mai____ 1815E questo Re di Quadri immusonito, circondato dai suoi detestati fratelli e da tutta una parata di prelati e alti funzionari in seta e spadino è l’opposto di quello che si aspettava il popolo francese, che anelava solo a pace, stabilità e prosperità. La distribuzione delle aquile alla riformata Grande Armée rese evidente quello che l’élite aveva già capito e il popolo temuto: la guerra era alle porte.

Una guerra il cui esito era scritto. Come disse – con cinica lungimiranza – Fouché “ci sarà una guerra, l’Imperatore vincerà una battaglia o due e perderà la terza”. Più che profetico: Ligny – Quatre Bras – Waterloo. Vittoria, vittorietta, sconfitta. E quindi attorno all’Imperatore, al suo attivismo, alle sue speranze si creò un crescente senso di disincanto, una fatalistica attesa della fine, un “non far nulla che tanto non serve”, cercando tutti di pensare “al dopo”. A quando cioè il glorioso ritorno sarebbe finito in una inevitabile nuova abdicazione.

Ai circa 800.000 soldati nemici schierati su 3 fronti diversi, la Francia poteva opporne appena 240/250.000, in gran parte reclute, sparsi su tutto il territorio nazionale e di dubbia fedeltà al nuovo regime. E a guidarli un sovrano incerto, senza più l’ossatura di straordinari “professionisti della violenza” che avevano fatto l’Impero: Berthier, volato da un balcone appena pochi giorni prima; Murat la cui spada era stata rifiutata e che era andato a schiantarsi contro l’esercito austriaco a Tolentino poche settimane dopo il ritorno di Napoleone; Davout, relegato al ministero a girare carte, per non far ombra all’Imperatore. Certo, c’era Ney, l’idolo dell’esercito, il più prode tra i prodi. Ma stanco, con la mente lenta e confusa, eccitabile e inaffidabile. L’uomo peggiore da mettere a capo dell’Armata del Nord, come Waterloo dimostrerà.

E così i Cento Giorni scorrono a tratti lenti, a tratti veloci, in un continuo alternarsi di intrighi, imbrogli, menzogne, tradimenti e illusioni alle spalle di un uomo stanco e indeciso. Un delizioso political drama se solo non fosse per i 128.000 caduti di almeno 9 nazionalità diverse che hanno trasformato il tutto in tragedia.

Alla fine le cose andranno come sappiamo tutti. L’Aquila verrà messa in gabbia e spedita lontano e a Parigi sarà il tempo delle faine. In questo Fouché si rivelerà il più bravo, perfetto a tranquilizzare i giacobini, fingersi liberale con gli orleanisti, fedele all’Impero con i bonapartisti e nel frattempo negoziante con i legittimisti. Incerto tra una reggenza in nome di Napoleone II, un trasferimento della sovranità al duca di Orleans o una nuova Restaurazione. Un gioco delle tre carte politico che metterà nel sacco tutti. Tutti meno uno, Luigi XVIII che fingerà di accettare i suoi servizi per tornare sul trono e poi si libererà della faina, destinata a morire povera e sola a Trieste, appena 5 anni dopo…

E la parte dell’intrigo politico descritta da de Villepin è magnifica e – secondo le recensioni che ho letto – piena di sottili riferimenti al contesto francese contemporaneo. Sottili riferimenti che io non sono in grado di cogliere e per questo non posso che rammaricarmene. Ma felice quel Paese in cui i leader si mandano messaggi attraverso i libri di storia, non tramite Twitter.

Autore: Marco Cucchini (C) Poli@rchia

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