Prendete la Danimarca, uno dei paesi con il più alto e diffuso benessere al mondo, in grado di offrire elevata sicurezza ai suoi cittadini. Poi pensate alla Siria di oggi, devastata dalla guerra civile, da tirannie corrotte e dal fondamentalismo religioso. Si tratta di due estremi opposti, eppure c’è un elemento che li accomuna entrambi, in un caso nel bene, nell’altro nel male. Quell’elemento è la politica, almeno secondo David Runciman, direttore del Dipartimento di Politici e Studi internazionali a Cambridge, che, in un volume pubblicato da poco per Bollati Boringhieri, parte proprio dalla comparazione di questi due casi per sviluppare alcune riflessioni sull’importanza della politica e sull’impossibilità di poterne fare a meno. Soprattutto quando ci si trova in presenza della cattiva politica, l’unico rimedio possibile è la buona politica.
Runciman ricorda come la Danimarca di alcuni secoli fa non fosse molto diversa dalla Siria di oggi. Cos’è cambiato, allora, nel tempo? Per rispondere alla domanda, l’autore si serve della filosofica politica moderna, in particolare Hobbes e Machiavelli. Da un lato la paura, formata dell’insicurezza generale e del perenne pericolo di violenza che caratterizza lo stato di natura; dall’altro lo Stato che con il suo potere, costituito da una cessione di libertà da parte dei cittadini, difende questi ultimi. Da una parte il principe, in grado difendere il territorio sul quale far valere la propria sovranità; dall’altra la capacità, vista nella Roma repubblicana, di far coesistere, in una società, interessi diversi e in conflitto tra loro, ma regolati da un ordinamento riconosciuto da tutte le parti. Ordine e conflitto si rivelano, dunque, le due dimensioni alla base dello Stato moderno e la sfida di quest’ultimo è quella di disporre della legittimità necessaria per farli coesistere. Se ciò avviene, i cittadini legittimano, secondo l’efficace definizione di Weber, lo Stato a disporre della forza pubblica; i conflitti, in questo caso, non cessano, ma si risolvono dentro uno spazio fatto da regole condivise. È il caso, per esempio, della Danimarca. Quando ciò non avviene, una o più parti si sentono legittimate a non cedere la propria forza allo Stato, ma, anzi, a utilizzarla contro di esso e contro le altre parti in conflitto. Si tratta della condizione di guerra civile permanente, che ossessionava Hobbes, e che è tipica della Siria attuale. Insomma, il problema è politico e la soluzione non può che essere politica.
Il ragionamento di Runciman è corretto, ma incompleto. Manca, infatti, a questa riflessione tutta politica, l’importante contributo sul politico di Carl Schmitt, illustre assente nel volume. La sua assenza si fa sentire anche nel secondo capitolo, quando l’autore sposta la sua attenzione sulla tecnica e sulla tecnologia, due fenomeni che hanno modificato profondamente la politica, spesso indebolendola. Il giurista tedesco aveva indicato nella tecnica un momento di spoliticizzazione della politica, una sua deriva. Runciman sorvola anche in questo caso, sebbene conservi lo stesso obiettivo critico. In particolare, la sua polemica è sul predominio dei tecnici nei processi decisionali, ossia la tecnocrazia, sia nella sua variante occidentale, data dal primato della finanza, sia nella variante cinese, data dal primato del management. La critica contro la tecnocrazia e la finanza è netta e l’autore non risparmia nessuno, neanche Mario Monti. In primo luogo, si chiede perché mai la politica dovrebbe demandare ai banchieri, che hanno causato la crisi, il potere di risolverla. Poi viene posta l’attenzione sull’assenza di legittimità del potere tecnico che viene sempre sofferto dai cittadini. Sulle tecnologie, invece, fa proprie le idee dell’economista Mariana Mazzucato, sebbene senza citarla, e del ruolo imprenditoriale dello Stato, spiegando come sia merito di grandi investimenti pubblici se si siano potute sviluppare grandi innovazioni tecnologiche, non certo del capitalismo.
Il volume si chiude con considerazione più utopiche sulla giustizia sociale. Runciman non si distacca dal liberalismo, ma crede sia importante una maggior redistribuzione della ricchezza, non solo dentro gli Stati, ma anche dai paesi più ricchi verso quelli più poveri. Tenendo come riferimento Rawls – e sullo sfondo il Kant della “Pace perpetua” – l’obiettivo ambizioso avanzato potrebbe funzionare solo in presenza di un “governo del mondo” in grado di imporre la tassazione e decidere sull’utilizzo di queste risorse. Per quanto ardua, la federazione sovranazionale è l’unica via perseguibile, secondo lo studioso, soprattutto per l’Europa che dovrebbe liberarsi dal potere dei tecnici e stabilire, grazia anche a partiti europei, il primato della politica.
Fonte: huffingtonpost.it