La toponomastica non è una disciplina neutra. I nomi di Paesi e città, le indicazioni sulle mappe, le persone cui vengono intitolate strade e piazze sono qualcosa di più di uno strumento per distinguere le vie. Rappresentano una rete di riferimenti culturali e, per necessità, politici. Lo dimostra, ad esempio, la controversia (infondata, se si va a vedere bene) che è sorta dalla cosiddetta sparizione (la realtà è più complessa) della parola “Palestina” dalla mappa di Google.
Ogni scelta, allora, può diventare delicata: solleva vecchi rancori, riaccende scontri politici. Addirittura, può diventare uno strumento per recapitare messaggi più o meno chiari agli avversari, siano di un altro partito o, anche, di un altro Paesi.
A Madrid, per esempio, l’ex sindaco Ana Botella decise nel 2014, di tentare una sortita:intitolò a Margaret Thatcher la vecchia piazza Jack Jones, sindacalista che combatté contro i fascisti durante la guerra di Spagna. Fu un cambio di campo notevole, e non mancarono né lamenti né proteste. Ma il sindaco (o la sindaca?) resistette. Con la nuova giunta (di sinistra e sostenuta da Podemos) la targa alla Lady di Ferro è (a sorpresa) rimasta al suo posto, mentre sono scomparse altre intitolazioni, risalenti all’epoca di Francisco Franco. Addio a Piazza “Arriba Espana” (uno degli slogan del franchismo, un po’ come intitolare una piazza a “Forza Italia”), e anche a Calle General Yague, dedicata a uno dei fedelissimi del Caudillo de Espana. Hanno preferito, anziché fare arrabbiare i conservatori inglesi, di dedicarsi a un po’ di pulizia nei riguardi di un periodo che non merita (più) celebrazioni.
Piegare la toponomastica alla politica è, come si diceva, un fenomeno diffuso: subito dopo la caduta del Fuhrer, ad esempio, gli americani si affrettarono nell’operazione di de-nazistizzazione del Paese. Fecero sparire simboli, statue e, soprattutto, cambiarono i nomi delle vie:
I polacchi, dal canto loro e in tempi più recenti, hanno proceduto alla de-comunistizzazione, cioè all’eiminazione di simboli riferiti al periodo sovietico. Con una difficoltà in più: la vicina Russia e la sua permalosità. Ogni tentativo di rimuovere targhe e dediche all’Armata Rossa è stato vissuto da Mosca come un affronto e questo ha reso tutto più complicato – senza dimenticare gli attivisti di sinistra polacchi, spaventati dal fatto che il repulisti possa eliminare anche i nomi dei comunisti che, durante la Seconda Guerra Mondiale, cercarono di resistere all’invasione tedesca.
Teheran, invece, preferisce usare i cambi toponomastici per provocare i nemici stranieri: la strada della capitale in cui si trova l’ambasciata dell’Arabia Saudita, ad esempio, sarà intitolata allo sceicco iraniano Nimr al-Nimr, condannato a morte e ucciso dagli stessi sauditi pochi mesi fa. Un modo per dire che no, la cosa agli iraniani non è andata giù. Del resto, non è nemmeno la prima volta: lo avevano già fatto con l’Inghilterra all’inizio degli anni ’80, quando fu cambiato il nome di via Churchill, dove risiedeva l’ambasciata britanninca, e venne intitolata a Bobby Sands, il membro dell’Ira che morì in prigione per uno sciopero della fame. Con la consueta flemma, gli inglesi si limitarono a spostare l’ingresso sulla via perpendicolare.
Il giochino, negli anni, si è ripetuto altre volte: gli Stati Uniti hanno intitolato la strada di Washington in cui si trovava l’ambasciata russa al fisico nucleare russo (e dissidente) Andrei Sakharov. Nel 2014 hanno deciso di fare lo stesso dispetto anche alla Cina, scegliendo di intitolare la via in cui si trova l’ambasciata di Pechino a Liu Xiaobo, premio Nobel per la pace e nemico del regime. Poi, però, non se ne fece nulla: tutto venne fermato quando si scoprì che anche i cinesi, dal canto loro, erano pronti a rispondere e a dedicare la via dell’ambasciata Usa a Pechino a Edward Snowden. Cose sgradevoli che, tra potenze, è meglio evitare.