Cosa minaccia le nostre democrazie? Come è cambiata la guerra negli ultimi decenni? E nel futuro? Quale sarà il destino della storia all’epoca dei big data? Ne abbiamo parlato con Antony Beevor, storico inglese, uno dei più grandi esperti di storia militare al mondo.
La battaglia di Stalingrado, quella delle Ardenne, la presa di Berlino, lo sbarco in Normandia, la Guerra civile spagnola, sono questi gli scenari in cui si muove la penna di Antony Beevor, uno degli storici più apprezzati al mondo, capace di far reagire il rigore e la documentazione con una potenza di racconto capace di rendere la Storia vivida, accattivante, praticamente un romanzo d’avventura.
Storico e insieme romanziere, insomma, ma senza mai lasciare che lo storytelling del secondo prenda il sopravvento sulla ricchezza di documenti, spesso esclusivi e inediti, che porta il primo. Ed è proprio grazie alla ricerca di nuovi documenti e di inediti, che i suoi libri — in particolare Berlino 1945 e La guerra civile spagnola — oltre ad appassionare i lettori normali, hanno spesso acceso infuocati dibattiti storici.
Negli ultimi anni l’umanità ha prodotto più dati di quanti ne avesse prodotti in tutta la sua storia. Che effetto hanno i big data sulla storia e sul lavoro degli storici?
In realtà per gli storici di oggi non cambia molto, noi non lavoriamo ancora con i big data, visto che, occupandosi del passato, non ne abbiamo a disposizione così tanti. La questione dei big data ce l’avranno gli storici del futuro, che effettivamente dovranno fare i conti con una mole di dati dalle dimensioni inedite. Sarà una bella sfida metodologica probabilmente. Ma non credo che sarà un grosso problema, o almeno, non sarà il maggiore per le prossime generazioni di storici.
Quale sarà?
Non produciamo soltanto una quantità enorme di dati, ma pretendiamo anche di analizzarli in diretta. La pressione mediatica ha portato i giornalisti a voler prendere il posto degli storici nell’istante stesso in cui la storia si dispiega. Pensa alle guerre in Iraq e in Afghanistan, probabilmente le più mediatiche della storia delle guerre. In quei frangenti i giornalisti hanno potuto avere accesso a documenti che qualche decennio fa sarebbero stati impossibili da avere. Per il giornalismo potrebbe anche essere una buona notizia, ma per gli storici del futuro questa dinamica comporterà un ulteriore difficoltà: si troveranno una specie di storia già scritta, ma scritta senza che si sia aspettato il tempo necessario a distinguere i macrofenomeni, senza prospettiva. A differenza della storia, il giornalismo ha fretta. È sempre sottoposto allo stress del tempo. Il problema dei giornalisti è che hanno la tendenza a voler scrivere la storia in tempo reale. E questo è molto pericoloso, perché piuttosto che cercare di occuparsi di sistematizzare il presente in istantanee accurate, molti giornalisti vogliono prendere il posto degli storici senza avere il tempo che serve alla cronaca per diventare Storia.
Negli ultimi anni sono stati pubblicate mail, messaggi personali e altri documenti che nella storia erano stati sempre privati o segretati. I politici di oggi secondo lei hanno più paura dei loro predecessori di essere giudicati dalla storia?
Churchill diceva che la storia sarebbe stata gentile con lui, perché sarebbe stato lui a scriverla. E infatti l’ha fatto, scrivendo un’opera mastodontica di prima mano, utilizzando fonti dirette a cui gli storici dell’epoca non potevano accedere. Credo di no, però, i politici di oggi non sono preoccupati dagli storici o dal giudizio che la storia riserverà loro. Al contrario, quelli che temono sono i giornalisti e credo anche che questo sia un problema molto grosso per la democrazia.
Perché?
Perché questa preoccupazione credo abbia già avuto un effetto visibile devastante sulla politica: ha accelerato i tempi e ha praticamente cancellato la politica a lungo termine. E difatti a nessuno interessa più il lungo termine, ormai. I politici pensano soltanto al breve termine, alle prossime elezioni o al prossimo avvenimento pubblico, al prossimo annuncio o alla prossima legge finanziaria. Non c’è nessun tentativo di costruzione di una politica che abbia una prospettiva.
Cambiamo argomento, lei da storico si è occupato spesso di storia dei conflitti, dalla battaglia di Stalingrado alla Guerra civile spagnola. Come sono cambiate le guerre nel frattempo? La presenza della tecnologia e la sempre più “asetticità” dei conflitti toglierà l’epica dalla storia?
È una domanda difficile e credo che la risposta la sapranno dare gli storici del futuro. Quel che posso dire io è che la guerra contemporanea effettivamente è molto diversa da qulla di qualche decennio fa, si è molto frammentata. Non è più fondata sullo scontro di due schieramenti in un campo di battaglia che si muovono con delle strategie. Una delle più grandi trasformazioni della guerra a cui stiamo assistendo è lo spostamento dei campi di battaglia nelle città, nelle grandi città. Gli americani si stanno attrezzando in tutti i modi a questa evenienza, hanno persino introdotto esercitazioni in realtà virtuale attraverso le quali addestrano i soldati a combattere in scenari cittadini. Questa dinamica fa parte di una dinamica più grande, ovvero il completo cambiamento del modo di fare la guerra.
Quel di cui non si sono accorti gli americani in Iraq è che a una vittoria militare non corrisponde più necessariamente la pace. Vincere non basta per porre fine a una guerra. Non è più come a Berlino o Tokio nel 1945, come pensavano loro. Ma non è così, nemmeno se hai le bombe intelligenti. E in questi nuovi scenari di guerra prolungata in città, i terroristi o i guerriglieri si proteggono e si nascondono mischiandosi con i civili.
Crede che sia possibile che le grandi città europee diventino nei prossimi anni lo scenario di guerre civili?
È possibile, ma è una visione molto distopica. In molte parti del mondo sta già accadendo, ma non credo che sia così certo che succederà anche in Europa. In Occidente tutto dipenderà da come si evolveranno le attuali forti contraddizioni del capitalismo.
Ovvero?
Nel passato il capitalismo ha sempre giustificato se stesso sul fatto che, intanto che i ricchi si arricchivano sempre di più, anche i poveri stavano un po’ meglio. Ecco, questo meccanismo si è rotto da un po’, almeno in America. È per questo che in Occidente si stanno accumulando sempre di più sentimenti di rabbia e frustrazione, ma da qui a dire che questi sentimenti sfoceranno in una o più guerre civili ne passa ancora un po’. Non credo che sia una strada già segnata, anche perché c’è una grande differenza con il passato: non ci sono più le forti ideologie contrapposte, il fascismo e il comunismo. Oggi viviamo in un vuoto ideologico, un vuoto che sta danneggiando fortemente la sinistra, a mio parere, ma che, avendo sostanzialmente congelato il conflitto sociale, rende più difficile il realizzarsi di scenari simili.
Cosa succede alla Storia se sparisce il conflitto sociale, che per molti versi ne è il motore?
Non credo che il conflitto sia sparito, magari è solo sopito. Stiamo entrando in una fase storica nuova. Sono sicuro gli storici del futuro di cui parlavamo divideranno la Storia tra il pre globalizzazione e il post globalizzazione. È un fenomeno gigantesco e mondiale che ha polarizzato la ricchezza perché, aprendosi il mercato a livello globale, le industrie si sono trovate ad avere accesso a una forza lavoro enorme facendo crollare i salari e diritti dei lavoratori in tutto il mondo. Non si potrà tornare indietro. Anche la robotizzazione nel giro di un paio di decenni avrà ripercussioni molto forti. Quindi, tu mi chiedi che fine ha fatto il conflitto, ma io ti giro la domanda: che cosa succederà quando le nostre società ipersviluppate produrranno milioni di disoccupati?
Ha parlato di una cesura storica tra un pre e un post globalizzazione, ma c’è anche l’avvento di internet e la rivoluzione digitale…
Sì, certo, in realtà negli anni Novanta c’è stata una grandissima rivoluzione che ha interessato quasi ogni campo. Una combinazione tra eventi geopolitici, tecnologici, sociali: c’è stata la caduta del Muro e la fine della guerra fredda; c’è stato un big bang economico; c’è stato un cambiamento sociologico nel rapporto tra l’individuo e l’autorità che in Inghilterra chiamiamo the less respectfull society, e che fa sì che la gente non abbia più fiducia nelle autorità, da quelle politiche a quelle culturali; c’è stata una polarizzazione sociale; e poi, come dicevi, c’è stata la nascita e la diffusione di internet, degli smartphone, del digitale insomma. Non si può tornare indietro dopo un cambiamento così totale. E il risultato è uno solo: non è mai stato più facile per le grandi imprese, ormai multinazionali, avere accesso alle risorse e, contemporaneamente, a un lavoro che non hanno mai pagato meno nella storia. Questo spread a un certo punto potrebbe creare le condizioni per il conflitto di cui sopra. In ogni caso credo che agli storici serviranno un’altra cinquantina d’anni per capirci qualcosa. Dovranno aspettare che tutte queste trasformazioni macroscopiche in qualche modo di normalizzino, anche per capire quali di queste cose sono strutturali e quali incidentali. È impossibile dirlo da qui, ed è anche questo il bello del lavoro dello storico, serve tempo.
Autore: Andrea Coccia | Fonte: linkiesta.it