Una mattina di giugno di due anni fa Khaled Omar Harrah salì su un furgoncino dei “Caschi bianchi” e si precipitò verso al Ansari, il quartiere di Aleppo che era appena stato colpito da due barili bomba sganciati dagli aerei del regime siriano. Gli attacchi avevano distrutto diversi edifici e intrappolato decine di persone dalle macerie. Harrah e i suoi colleghi riuscirono a salvare tre famiglie. Alle 15.30, nove ore dopo i bombardamenti, Harrah appoggiò l’orecchio contro un pezzo di muro crollato e sentì un bambino piangere: «Pensavo che fosse un mio delirio, ero così stanco. Allora chiesi a un amico: “Lo senti? Metti l’orecchio qui. Credo di avere sentito il pianto di un bambino”, e lui rispose, “Sì, lo sento!”». I soccorsi ripresero con più urgenza ma alle 17 il bambino smise di piangere: «Pensavamo che fosse morto», raccontò qualche settimana dopo Harrah. Gli uomini dei Caschi bianchi, un’organizzazione di volontari di difesa civile che opera nelle zone della Siria sotto il controllo dei ribelli, andarono avanti a lavorare fino a notte fonda. Dopo 16 ore Harrah trovò il bambino, vivo: si chiamava Mahmud ed era nato due settimane prima. Harrah lo tirò fuori tra le macerie con le lacrime agli occhi, e insieme a lui piansero di emozione anche i suoi colleghi.
Negli ultimi due anni il video del salvataggio di Mahmud è circolato molto su Internet ed è stato uno dei motivi per cui si è cominciato a parlare dell’esistenza dei Caschi bianchi al di fuori della Siria. I Caschi bianchi sono stati anche oggetto di una raccolta firme organizzata da diverse celebrità di fama internazionale, che come ha scritto un po’ ironicamente il New York Times, dopo anni di guerra «hanno trovato un gruppo siriano da sostenere». La raccolta firme chiedeva che il premio Nobel per la pace 2016 venisse assegnato al gruppo.
I Caschi bianchi sono stati anche i protagonisti di un documentario uscito da poco su Netflix, molto intenso ed emozionante: dura una quarantina di minuti, è stato montato con video originali delle operazioni di soccorso ad Aleppo intermezzati con alcune interviste dei protagonisti. Si intitola Caschi Bianchi (White Helmets il titolo originale) ed è stato diretto dal britannico Orlando von Einsiedel con la collaborazione del 21enne Khaleed Khateeb, il Casco bianco che ha girato tutte le scene ad Aleppo.
I Caschi bianchi sono stati fondati nel 2013 da Raed al Saleh, un siriano che oggi promuove la sua organizzazione tra New York, Washington e diverse capitali europee in cerca di appoggio e finanziamenti. All’inizio i volontari erano solo 25, tutti non pagati; oggi sono circa 3mila, la maggior parte uomini che hanno alle spalle esperienze professionali più diverse. Per diventare un Casco bianco non serve avere conoscenze particolari – non ci sono nemmeno restrizioni per gli ex combattenti – basta sottoscrivere la carta che illustra il Codice di condotta (PDF), il cui principio centrale è molto semplice: compiere operazioni di soccorso e salvare il più alto numero di vite umane. Nel corso degli ultimi anni alcuni gruppi di Caschi bianchi hanno partecipato a corsi di formazione di primo soccorso, come quello mostrato nel documentario di Netflix e organizzato nel sud della Turchia. È stato in Turchia che il regista Orlando von Einsiedel ha incontrato i Caschi bianchi protagonisti della storia e ha fatto una specie di corso accelerato a Khaleed Khateeb su come realizzare le riprese quando il gruppo fosse tornato ad Aleppo. I Caschi bianchi hanno anche un motto, che corrisponde a un verso del Corano: «Salvare una vita è salvare tutta l’umanità».
I Caschi bianchi operano quasi esclusivamente nelle zone sotto il controllo dei ribelli, come la parte orientale di Aleppo. L’accesso alle zone governative non è permesso. Sono finanziati da diversi governi democratici – tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Paesi Bassi, Giappone, Francia, Danimarca e Germania – e ricevono parecchie donazioni private (per esempio dalla fondazione in memoria di Jo Cox, la parlamentare laburista britannica uccisa a Birstall, vicino a Leeds, il 16 giugno scorso).
Quando c’è un bombardamento, i Caschi bianchi cercano di arrivare sul posto il prima possibile. «Abbiamo una persona che è responsabile di guardare gli aerei», ha raccontato Mohamad al Kasim, un Casco bianco di Aleppo. Si muovono guardando dove gli aerei hanno sganciato le bombe e sulla base delle richieste di aiuto delle popolazioni locali. Quando arrivano nella zona attaccata, cercano di disperdere la folla e chiedono silenzio per qualche istante: «Siamo della difesa civile: ci sentite?». Serve a cogliere le urla di chi è rimasto intrappolato, per sapere dove cominciare a spostare le macerie. Le condizioni di lavoro dei Caschi bianchi non sono pericolose solo per gli edifici traballanti, il rischio di crolli improvvisi, e cose simili, ma anche per la cosiddetta tattica dell’attacco “double-tap”, adottata dagli aerei del regime di Assad e dei russi: “double-tap” significa che i soccorritori che arrivano dove è stata sganciata la prima bomba diventano i bersagli della seconda. Serve a massimizzare i danni e i morti.
Non c’è un tempo standard per le ricerche e i soccorsi: alle volte basta mezz’ora, altre volte si può andare avanti per una settimana intera. I Caschi bianchi si occupano anche della sepoltura dei morti, una cosa di cui si parla poco ma che per esempio ad Aleppo orientale è diventata molto problematica.
Negli ultimi anni, ma soprattutto mesi, i Caschi bianchi sono stati oggetto di una intensa campagna di disinformazione. Michael Weiss, giornalista e analista esperto di Siria e Russia, ha scritto sul Daily Beast che la campagna, «sostenuta dai mullah e dal Cremlino e da ogni specie di compagnie di estrema sinistra ed estrema destra simpatizzanti di Mosca, Teheran e Damasco, mira a descrivere i Caschi bianchi come un elaborato fronte sia di jihadisti che dell’Occidente, i quali, in questa interpretazione complottista, sarebbero anche alleati gli uni con gli altri». Una visione simile delle cose è stata esposta di recente in un articolo del giornalista Max Blumenthal pubblicato su Altarnet, un sito che dice di fare “informazione indipendente”. Blumenthal ha scritto che i Caschi bianchi sarebbero uno strumento manovrato dagli Stati Uniti per provocare un cambio di regime in Siria, cioè per destituire Assad. L’articolo è stato molto criticato da diversi giornalisti che si occupano di Siria e alcune delle informazioni contenute sono state smentite e chiarite su Twitter da James Sadri, il direttore dell’organizzazione The Syria Campaign, che sostiene i Caschi bianchi.
Finora i Caschi bianchi hanno salvato più di 60mila persone. Due settimane e mezzo fa le strutture dell’organizzazione ad Aleppo orientale sono state colpite dai bombardamenti compiuti dal regime di Assad e dai russi, successivi alla fine della tregua. Mahmud, il bambino che fu salvato ad Aleppo nel giugno 2014, ha più di due anni e – da quanto se ne sa – sta bene. Harrah, l’uomo che lo estrasse vivo dalle macerie, è stato ucciso durante un bombardamento nell’agosto 2016. Venerdì 7 ottobre i Caschi bianchi sono stati attaccati nella città siriana di Hama, mentre a Oslo il comitato per il Nobel norvegese assegnava il premio Nobel per la pace al presidente colombiano Juan Manuel Santos.
Fonte: ilpost.it