Per Hillary, tutto è cominciato con nove patriottici tailleur – tre blu, tre bianchi, tre rossi – appesi a uno stand. E la didascalia Hard choices (titolo, tra l’altro, di una sua autobiografia del 2014) a ironico commento del primo post Instagram, datato giugno 2015, della candidata democratica alla Casa Bianca. Quella tra Donald J. Trump e l’app di photo-sharing da 500 milioni di utenti, invece, è storia più antica: cominciata nel 2013, molto prima che @realdonaldtrump diventasse il discusso coprotagonista della corsa presidenziale americana, con uno scatto dell’imprenditore multi-milionario, allora più attento a promuovere il proprio business che a difendere i valori della bandiera, rubizzo e gongolante su un campo da golf accanto a un Tiger Woods dal sorriso tirato.
Da allora, molti post sono passati (774 sull’account di Hillary, 1.069 su quello di Trump) e molta strada è stata fatta nella consapevolezza dell’uso di Instagram come strumento per orientare il consenso politico. Se in passato la copertura delle campagne elettorali era appannaggio dei fotogiornalisti e dibattiti televisivi, spot ed eventi live erano le principali opportunità di veicolare il proprio messaggio, lo sviluppo dei social media ha offerto nuovi canali per la comunicazione politica e ha trovato in Instagram – e nella sua crescita inarrestabile: nel 2017 il 51,8% degli utenti internet userà l’app, secondo le statistiche del sito eMarketer – uno strumento fondamentale per definire immagine, immaginario e brand di un candidato.
Il presidente in carica, d’altra parte, è stato tra i primi a intuirlo. Già ai tempi delle elezioni del 2012, Obama ha cominciato a costruire attraverso Instagram il suo racconto di una campagna dal volto umano, generando un’interazione enorme (fino a 56 mila fra commenti e like per ogni post) e diventando il leader politico più popolare sul social (9,3 milioni di follower a oggi). Ma con i quasi 100 milioni di utenti attivi oggi nei soli Stati Uniti, le presidenziali 2016 saranno le prime a essere dettagliatamente coperte, e forse vinte, sul campo di battaglia del photo-sharing. D’altra parte, l’assunzione negli uffici di Menlo Park (dove c’è persino uno Studio Ovale in miniatura: controllare all’hashtag #miniovaloffice per credere) del consulente di comunicazione digitale John Tass-Parker, con il compito di approfondire il ruolo di Instagram nell’orientamento del consenso elettorale, rivela come il territorio della comunicazione politica sia al centro anche degli interessi di Mark Zuckerberg e Kevin Systrom. E suggerisce quanto la comprensione del linguaggio fotografico sia fondamentale per una campagna efficace.
Ma cosa ci dice Instagram della donna o dell’uomo che prenderà posto nel vero Studio Ovale? Con i suoi 2,6 milioni di seguaci, Donald Trump vince, di misura, il primato dei follower, ma è Hillary (2,3 milioni di seguaci), o meglio il suo digital staff guidato da Katie Dowd, che sembra avere le idee più chiare. Il tono caldo ed empatico dei suoi post è perfettamente in linea con una campagna scandita dal mantra Loves Trumps Hate. I molti abbracci – tra cui quello con il presidente Obama alla convention democratica dello scorso luglio, immagine con più like della corsa presidenziale (132 mila) – mirano strategicamente a smentire la presunta freddezza dell’ex Segretario di Stato.
Le foto di backstage, sapientemente alternate a quelle ufficiali, rendono più autentico il racconto elettorale. Ma, soprattutto, lo staff di Hillary sembra aver compreso i codici del mezzo e il suo potenziale nella narrazione politica: dai frequenti #throwback (immagini del passato condivise nel presente) relativi al suo matrimonio – memorabile lo scatto di una festa a tema del 1995, con Hillary travestita da Dolly Parton tra le braccia del marito – che cercano di ricostruire a posteriori un’epica familiare messa a dura prova dall’epico tradimento di Bill, fino ai vari take-over (meccanismo con cui un account viene temporaneamente dato in gestione a un’altra persona) affidati a stelle dello show business come Katy Perry o Lena Dunham.
Tutt’altra musica sull’account di @realdonaldtrump: una significativa quantità di repost (condivisioni da altri account) fa pensare a una strategia di comunicazione pigra e poco pianificata. L’esorbitante numero di foto di eventi ufficiali, inquadrati spesso da distanze siderali, aumenta la percezione di quella lontananza che Instagram, se usato bene, potrebbe contribuire a ridurre. Pochissimi i post più personali: a parte notevoli eccezioni come quella in cui il candidato repubblicano mangia il pollo fritto di Kfc sul suo jet privato per festeggiare la vittoria alle primarie. Moltissimi, invece, i post comparativi, in cui, in puro stile Trump, il tycoon contrappone le proprie virtù alle innumerevoli nefandezze della sua avversaria.
Ma se Instagram permette ai candidati di modellare e diffondere la propria immagine, ci sono limiti all’influenza della piattaforma: questo social non è né il mezzo ideale per orientare gli indecisi (i follower rappresentano per lo più una fetta di elettorato già convinta delle proprie scelte), né, non essendo obbligatorio rivelare la propria identità, il luogo per raccogliere dati sui propri sostenitori. Tuttavia, dato il basso costo di gestione e il forte richiamo, Instagram può essere lo strumento giusto per arrivare ad alcuni dei target fondamentali per queste elezioni: donne, ispanici, afroamericani e, soprattutto, giovani (tra i 18 e i 29), il 53% dei quali utilizza attivamente l’app.
Di sicuro, dopo il prossimo 8 novembre, l’impatto dei follower sulle urne elettorali sarà oggetto di analisi e fonte di ispirazione per future strategie, anche fuori dai confini americani. Ma, a dare un rapido sguardo al panorama italiano, la strada per farne un efficace veicolo di comunicazione politica nel nostro Paese è ancora lunga. Dei due maggiori partiti attivi sul social, uno, il Pd, ha soltanto 5.167 follower. L’altro, il M5S, ne ha oltre 25 mila, ma con un’attività ridotta a 215 post. Se la cava meglio Matteo Renzi, attivo dal 2012, con i suoi quasi 57 mila seguaci. Ma il numero relativamente basso dei post e delle interazioni, insieme alla monotonia di un’iconografia basata quasi esclusivamente sulle strette di mano agli eventi ufficiali, lascia ampi margini di miglioramento.
Per ora, appassiona di più la versione ingegnosamente casual del premier proposta dall’account gestito dal suo portavoce Filippo Sensi, con il nickname Nomfup (acronimo di not my fuckin’ problem). Tra primi piani, dietro le quinte, composizioni ricercate e scatti strappati alla frenesia di una campagna vissuta in prima linea, viene voglia di vedere cosa ci riserverà il prossimo post. Magari qualche scatto sapientemente “rubato” oltre la cortina glamour del prossimo state dinner alla Casa Bianca, dove Renzi sarà l’ospite d’onore. E chissà che Barack non gli sveli qualche trucco per conquistare il mondo con Instagram.
Fonte; pagina99.it