Magari fuori tempo massimo, ma in Europa la politica “tradizionale” si è rimessa in moto con febbrile fervore, spia del bisogno di immettere nel mercato un’offerta politica che possa risultare nuova. Lo fa per costrizione, nel timore di essere spazzata via da movimenti anti-sistema che, per il principio dei vasi comunicanti, credono di aver tratto altra spinta dall’esito del referendum italiano. Se gli sforzi saranno sufficienti per scongiurare un disastro nel consenso, se riusciranno o meno a non dare l’impressione che stanno cambiando tutto perché nulla cambi, giudicheranno i cittadini. In un 2017 che porta appuntamenti elettorali cruciali, soprattutto in due Paesi che sono il cardine del Continente, Francia e Germania.
Parigi va al voto per le presidenziali tra aprile e maggio; a seguire, le legislative. Tempi ancora lunghissimi, in politica. Eppure è già successo molto. A cominciare dall’inedito di un presidente in carica, François Hollande, talmente screditato (al 7,5 per cento di popolarità) da rinunciare persino alle primarie del suo partito, il socialista, nel timore di un’umiliazione da antologia. Incarna, Hollande, il fallimento rotondo e persino oltre i propri demeriti, di una sinistra non solo lontana dal proprio elettorato tradizionale sui temi economici (da tempo preferisce il protezionismo identitario del Front National di Marine Le Pen) ma a cui vengono imputate clamorose mancanze sul tema altrettanto fatale della sicurezza. In questo senso non per caso, e per paradosso, la postura dopo gli attentati di Parigi e Nizza ha segnato contemporaneamente il suo apice e il suo abisso: ottimo il decoro istituzionale, pessima la prevenzione del terrorismo.
Il suo abbandono dell’agone ha scatenato, per spirito di sopravvivenza dell’élite socialista, gli appetiti di outsider desiderosi di occupare il vuoto e speranzosi di aver nello zaino il bastone da maresciallo per scongiurare almeno il peggio: cioè un ballottaggio per l’Eliseo tra destra ed estrema destra. Successe già nel 2002 e fu un’assoluta sorpresa, ricapitasse 15 anni dopo sarebbe la conferma di una sinistra diventata residuale.
Il giovane ambizioso Emmanuel Macron, 39 anni da compiere il 21 dicembre, ex ministro dell’Economia e per la verità da anni nemmeno iscritto al partito, è stato il primo a smarcarsi per tentare l’avventura solitaria col movimento “En Marche!”. L’impresa che si è prefisso non è mai riuscita a nessuno in Francia: far trionfare il centro in un Paese tradizionalmente bipolare, mai uscito dall’alternanza destra-sinistra.
Quanto si propone anche, seppur protetto eventualmente dall’apparato socialista, l’ex primo ministro Manuel Valls, 54 anni, fresco di dimissioni per giocarsi l’avventura delle primarie il 22 e 29 gennaio prossimi. Ha il problema, non secondario, di far dimenticare se stesso, ossia le sue responsabilità in quanto massimo rappresentante di un esecutivo screditato e abbandonato soprattutto dai giovani a causa della “Loi travail”, sorta di Jobs Act alla Renzi in salsa parigina. I suoi primi discorsi da aspirante dell’Eliseo si segnalano per moderazione e per toni concilianti non proprio in linea col carattere fumantino. Avrà come avversario principale il coetaneo Arnaud Montebourg, già portavoce della sfortunata campagna di Ségolène Royal nel 2007 e già ministro dell’economia, iscritto tra i “frondeur”, l’ala sinistra socialista critica del binomio ormai scisso Hollande-Valls, oltre a una miriade di minori che testimoniano la confusione di un partito dilaniato. E incalzato dalla sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon, 65 anni, il tribuno avviato a una gloriosa sconfitta essendo accreditato del 12 per cento.
Chiunque vinca, l’operazione cosmetica della sinistra rischia di essere meno efficace di quella di una destra che ha osato l’inosabile, in un Paese affezionato al welfare almeno quanto l’Italia. Alle primarie di intensa e clamorosa partecipazione (più di 4 milioni) il popolo dei Républicains ha bruciato il vecchio campione e cavallo di ritorno Nicolas Sarkozy, il superfavorito e rassicurante Alain Juppé, per affidarsi al terzo incomodo François Fillon, non un principiante, 62 anni, ex primo ministro di Sarko, thatcheriano ortodosso (una bestemmia, a Parigi), amico personale di Vladimir Putin, non scandalizzato dall’elezione di Donald Trump, favorevole a un’intesa Stati Uniti-Russia, magari con lui a fare da garante. Soprattutto cattolico estremo con venature vandeane, capace di lisciare il pelo a quella Francia profonda e campagnola, in modo non dissimile da Marine Le Pen. Dalle posizioni della quale, in tema di immigrazione e identità, non è poi così distante.
Marine, appunto. L’ombra della quale incombe e permea ogni scelta. Uno spauracchio che sarà depotenziato solo con la solita alleanza spuria di tutti contro di lei al ballottaggio per l’Eliseo. Per quel che valgono, ormai, le previsioni sono: Fillon presidente. E conseguente riduzione delle protezioni dei più deboli. Perché il suo desiderio di massacrare lo Stato sociale si scontrerà con la necessità di governare senza esacerbare il conflitto sociale.
La Francia sarà l’appuntamento attorno a cui ruota il resto. E influenzerà le consultazioni d’autunno in Germania. Dove i correttivi per scongiurare l’ascesa dei populisti di “Alternative für Deutschland”, dati in doppia cifra, sono già in atto. I tedeschi non lasciano nulla al caso. L’apertura delle frontiere ai profughi siriani dell’anno scorso da parte di Angela Merkel è costata a lei stessa e al suo governo un calo di consensi, non drastico ma significativo. E allora il suo partito, la Cdu, è corsa al riparo, riconfermandola certo nella scalata alla cancelleria (e sarebbe la quarta volta) però vincolandola a una revisione delle politiche di accoglienza che hanno gonfiato le vele dei gruppi estremisti persino nel Paese delle strepitose performance in economia, però scosso da alcuni attentati di matrice islamista. I socialdemocratici non hanno ancora scelto.
Le dimissioni dalla presidenza del Parlamento europeo di Martin Schulz, noto in Italia per lo scontro con Silvio Berlusconi che gli diede del kapò, sono l’indizio della sua volontà di impegnarsi in patria per ridare linfa alla Spd e tentare un’alternativa all’inossidabile Angela. Previsioni: come già nella legislatura in atto, Cdu e Spd saranno costretti ad andare a braccetto in un’altra edizione della “grosse koalition”, conseguenza del meccanismo elettorale proporzionale. E stavolta anche baluardo di difesa contro le formazioni antisistema.
Se questi pronostici sono esatti, in Germania e in Francia scatterebbe, seppur con modalità e numeri diversi, una “conventio ad excludendum” per tenere i populisti fuori dalle stanze del potere. E i partiti tradizionali si giocherebbero un’ulteriore chance per dimostrare che la loro è reale volontà di cambiamento, non solo tattica per l’autoconservazione. Una chance, forse l’ultima. Se falliscono, l’onda che spazza l’occidente, li travolgerà.
Fonte: espresso.repubblica.it