La fine del 2016 e l’inizio del 2017 sono stati caratterizzati da un nuovo interesse verso le comunicazioni sul web. Uno dei temi di maggiore interesse è quello delle fake news, o “bufale”, del web: come individuarle e come sgominarle.
È noto che le bufale si diffondono da sempre, da quando esistono i mezzi di comunicazione di massa e da prima ancora. Con il web si diffondono più in fretta e raggiungono più persone, e quando una bufala è particolarmente riuscita – nel senso che riesce a convincere molti – viene commentata e ri-diffusa dai giornali e sui social network, guadagnandosi molti “like”.
Ma, francamente, anche questa non è una novità e stupisce che politici e commentatori se ne siano accorti soltanto adesso. Da tempo infatti esistono siti e blog antibufala, che raccontano le più belle e danno consigli su come riconoscerle (provate a fare una googlata e vedrete: bufale.net, bufale un tanto al chilo, bufale.it, factcheck.org, npr.org, hoaxbuster.com, hoaxkiller.fr ).
In ogni caso, le elezioni di Trump negli Usa e, in parte, il mancato “si” al referendum costituzionale in Italia, sono stati un momento di svolta nel modo di affrontare le bufale sul web. È davvero possibile attribuire la responsabilità dei risultati elettorali al web e agli oscuri stregoni che sarebbero in grado di manovrarlo, diffondendo ad arte commenti e notizie diretti a screditare o acclamare il candidato prescelto?
Di recente due noti esperti di debunker, Paolo Attivissimo e David Puente, hanno iniziato a smascherare alcuni fabbricanti seriali di bufale, siti travestiti da testate giornalistiche che diffondono disinformazione. Oltre oceano The Guardian ormai da mesi sta conducendo una campagna contro Facebook, ritenendolo uno dei maggiori veicoli di disinformazione.
Il problema delle bufale, però, non è solo quello della costruzione volontaria di notizie false (le vere bufale), ma anche quello della gestione incontrollata di informazioni, aggregate in modo poco chiaro e tale da ottenere lo stesso risultato. Ne è un esempio il sistema Safety Check di Facebook, che a volte si attiva per errore e trasforma in allarmi planetari eventi in realtà irrilevanti.
E tant’è che Facebook ha creato una nuova funzione: il “pulsante antibufala“, che permette agli utenti di segnalare se una notizia è contestata e, nel caso in cui le segnalazioni superino un certo numero, sollecita facebook a procedere con la verifica dei fatti, grazie al supporto gratuito di organizzazioni indipendenti che si occupano di fact checking.
In Italia i giorni tra Natale e Capodanno sono stati segnati da un dibattito particolarmente acceso fra il presidente dell’Antitrust, Giovanni Pitruzzella, e il leader del M5S, Beppe Grillo. Il primo in un intervista al Financial Times – forse proprio in risposta all’iniziativa assunta da Facebook – ha proposto l’istituzione di una rete europea di agenzie pubbliche per combattere la diffusione delle bufale su internet, che dovrebbero velocemente individuarle e rimuoverle bufale, eventualmente imponendo sanzioni.
Il secondo propone invece una giuria popolare – cittadini estratti a sorte – che determini la verità delle notizie pubblicate dai media. Nel dibattito sono intervenuti anche il Ministro della giustizia, Andrea Orlando, e il Presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro, introducendo altri temi complessi come l’hate speech, la gogna mediatica, la responsabilità dei gestori.
Del dibattito in corso ciò che lascia perplessi è la confusione tra temi che sono diversi, anche se collegati, così come diversi sono i punti di vista. Da un lato c’è l’interesse della collettività ad avere informazioni corrette: è il caso della diffusione di bufale di carattere generale, rilevanti perché strumento di inganno della collettività, quelle sulla utilità o inutilità dei vaccini, sul verificarsi di un evento catastrofico, sulla esistenza o meno di controlli massivi, e così via.
Dall’altro lato c’è l’interesse di persone singole o di gruppi di persone (i neri, le donne, gli ebrei, i disabili) alla tutela della propria identità e reputazione: è il caso delle fughe di notizie sulle indagini giudiziarie (specie se non vere o superate) e dell’hate speech. In tutti i casi occorre fare molta attenzione a distinguere fra fatti e opinioni, risalendo la china fino alla prima fonte dell’informazione (in un commento precedente segnalavo come uno dei rischi maggiori dell’informazione sul web sia l’effetto “telefono senza fili“.
Del dibattito in corso è invece positivo il fatto di avere richiamato l’attenzione sulla necessità di regole condivise. Chi può o deve farsi carico di smascherare le bufale? A proposito dell’hate speech la Presidente della Camera, Laura Boldrini, ha già da qualche tempo sollecitato facebook la creazione un pulsante anti hate speech analogo al pulsante antibufala. Il fatto di poter segnalare l’esistenza di un problema è indubbiamente interessante, ma chi deve dare la risposta?
La verifica delle bufale, così come la verifica della prevalenza tra il diritto a comunicare, il diritto a essere informati e il diritto a scomparire dal web, richiedono competenze specifiche e approfondimenti; il ripristino della correttezza informativa richiede interventi tecnici e legali che permettano la rettifica e la diffusione virale delle informazioni corrette. Si tratta di un lavoro lungo e complesso, fattibile – per esperienza – se focalizzato su informazioni specifiche, molto difficile su relativo a informazioni di carattere generale.
A tutto questo si aggiunge il pubblico: il convitato di pietra, che non crede più (o non solo) ai media tradizionali, ma cerca nuovi modelli su cui fare affidamento, che spera che l’informazione al di fuori dei canali istituzionali sia più affidabile perché più libera e meno controllata dai poteri forti, ma che spesso non riesce a valutare l’affidabilità delle fonti.
L’istituzione di una nuova autorità di controllo, in grado di vigilare e di intervenire per custodire la verità sul web, non è semplice da concepire e avulsa dalla realtà del web, che richiede capacità di reazione immediata e uniforme, ma coinvolge paesi e giurisdizioni nei quali i principi e i diritti sono diversi e diversamente tutelati.
E se nell’attesa di una soluzione globale provassimo a far funzionare gli strumenti che abbiamo a disposizione e rafforzassimo la cooperazione fra le autorità nazionali esistenti? Maggiore velocità nelle risposte e migliore collegamento tra le istituzioni dei diversi paesi, permetterebbero certamente di fare qualche passo in avanti.
Fonte: huffingtonpost.it | Caterina Flick