Che diritto ha di esercitare il Potere colui che sta esercitando il Potere? E’ il tema antichissimo della legittimità sul quale – da Sant’Agostino in poi – sono state vergate migliaia di pagine e di certo non sarò io a scriverne le righe conclusive.
Machiavelli, Hobbes, Rousseau, Weber… tutti hanno sottolineato che un governo per rimanere in carica ha la necessità di essere considerato “legittimo” dai governati e che questa si collega strettamente a un senso di fiducia nei confronti delle istituzioni, al di là di chi è chiamato a reggerne pro tempore i ruoli. E in una democrazia rappresentativa la legittimità e la relativa fiducia passano soprattutto attraverso il rapporto elettorale.
La discussione politica e istituzionale degli ultimi anni si è incentrata sul tema della “stabilità”, vale a dire la capacità dei governi di rimanere in carica per un lasso di tempo congruo a condurre in porto il proprio programma, nella convinzione che questa fosse una condizione necessaria e sufficiente per rilegittimare la Politica agli occhi dei cittadini. Per questo il dibattito sulla riforma elettorale è animato dalla necessità di costruire maggioranze parlamentari, anche attraverso la ricerca di escamotage tecnici volti a nascondere la polarizzazione politica ed elettorale esistente nella società e anche l’intera retorica alla base della riforma costituzionale naufragata lo scorso dicembre era incentrata in larga parte sul raggiungimento di questo obiettivo.
Eppure, non è solo di stabilità che il nostro sistema ha bisogno: dei 5 governi più lunghi nella storia repubblicana, 4 sono governi della c.d. “II Repubblica” e sia l’attuale legislatura, che la legislatura precedente hanno avuto esecutivi in grado di restare in carica a lungo e di realizzare rilevanti parti di programma. Eppure, tanta efficienza non è stata premiata dall’elettorato, considerata la crescita delle forze politiche c.d. “antisistema” sia in occasione delle elezioni politiche 2013 che in prospettiva futura, se solo leggiamo i dati dei sondaggi o i risultati delle competizioni amministrative del 2016. Pertanto se i governi restano in carica a lungo, producono badilate di decisioni eppure più restano in piedi, più decidono e meno consenso ricevono allora qualche cosa non torna, qualche cosa nella selezione. Qualche cosa nel legame tra eletti ed elettori.
Basta osservare cosa accade in queste ore dalle parti della Puglia. Sindaci, amministratori e cittadini qualunque sotto la minaccia dei manganelli della polizia perché sul loro territorio verranno sradicati oltre 200 ulivi per far passare un gasdotto che, partendo dal Mar Caspio (esausto e a un passo dalla irreversibile distruzione), porterà gas naturale in tutta Europa. Ora, non so chi abbia ragione, se i manifestanti o chi caldeggia il Progettone, anche se d’istinto ho più simpatia per chi coltiva ulivi che per le dittature postcomuniste o le multinazionali. E – per inciso – sono anche abbastanza convinto che se per far passare il gasdotto fosse necessaria inserire i tubi in piazza San Marco a Venezia, creare una diga artificiale nel Chianti e traforare la Cappella Sistina questo non provocherebbe la minima esitazione in un qualsiasi CEO di tecnocriminali, così come sono anche abbastanza sicuro che si troverebbe un qualche tecnico del Ministero dell’Ambiente disposto a mettere i timbri sulla qualità ambientale del tutto…
Ciò detto però, quello che non è in discussione è che ormai le decisioni politiche che riguardano i territori vengono adottate in sedi che con i territori medesimi hanno poco o nulla a che fare e spesso la politica non fa neppure lo sforzo di spiegare le proprie decisioni a chi deve subirle, salvo poi – magari – frignare sui “populismi sovranisti”. Potrebbe anche essere che un sistema nel quale l’eletto sia tale grazie alle liste bloccate, non abbia la necessità si giustificare davanti a un elettore in carne ed ossa le proprie scelte e tutto sia demandato al talento teledemiurgico del leader di turno sia funzionale per l’autoritarismo ipercapitalista che condizionale le nostre vite in ogni dettaglio. Ma siamo sicuri che lo sia anche per le comunità che con il loro voto devono legittimare le istituzioni democratiche rappresentative? In fondo stanno spuntando già come funghi “illustri studiosi” che sostengono questa o quella forma di tecnocrazia, dove i costi della negoziazione, del dialogo e della partecipazione sono azzerati in favore di un votificio virtuale continuo e chi ci dice che un domani questo non diventi la regola? Magari dopo 20 anni ininterrotti di attacchi ai diritti di welfare e del lavoro lo step successivo potrebbe essere la limitazione dei diritti politici su base tecnologica.
Però è uno scherzare con il fuoco: fino a quando il sistema non avrà il coraggio di eliminare il suffragio universale e le libere elezioni esisterà la possibilità che se la Politica non riscopre la propria capacità di farsi rappresentanza e portavoce di istanze di base, il deficit di legittimità istituzionale continuerà ad aumentare e presto o tardi il filo sottile che ancora unisce rappresentati e rappresentanti potrebbe spezzarsi.
Per questa ragione, più che il tema della stabilità è quello della rappresentanza da porre al centro della discussione e – per chi si pone l’obiettivo di rilegittimare il sistema – la scelta è ovvia: ripudio totale del meccanismo delle “liste bloccate”, scetticismo verso le preferenze su aree vaste (fonte di clientelismo notorio) e impegno per il ritorno a una competizione articolata su collegi uninominali.
Si può scegliere un sistema proporzionale, maggioritario o misto, tutti e tre vanno bene, ma solo la rappresentanza articolata su aree ristrette e un dialogo stretto e continuo tra eletti ed elettori che questo meccanismo impone potrà, almeno in parte, riportare un minimo di credibilità e di virtù al sistema politico. Collegi piccoli, con vincolo di residenza per l’eletto e la necessità oggettiva di conoscere ogni borgo, ogni fabbrica, ogni associazione: questo rilegittima la politica e ridà un senso alle elezioni.
Altrimenti, tanto vale fare un bel televoto.
Marco Cucchini | Poli@rchia (c)