«Il popolo vuole l’Italia Una e Indivisibile con Vittorio Emanuele Re costituzionale e i suoi legittimi discendenti?»
Questo è un plebiscito, perché i plebisciti sono fatti così: non servono a dirimere questioni politiche precise, ma a rafforzare leadership sulla base di quesiti vaghi e ambigui. Il popolo delle Due Sicilie chiamato a votare magari avrebbe potuto preferire un’Italia non unitaria ma federale, magari repubblicana e non monarchica oppure – per un rigurgito di tardiva lealtà – con “Francesco II di Borbone re costituzionale” invece di un Savoia, che parlava in francese.
Il ‘900 fu il secolo della democrazia rappresentativa, i plebisciti relegati a forma di legittimazione dopata propria delle dittature e sostituiti dai referendum, modalità di consultazione diretta per dirimere singole questioni spinose ma definite (vuoi il divorzio? e il nucleare?), il più delle volte politicamente trasversali.
In questo caotico nuovo millennio, pieno zeppo di leader e leaderini glitterati e scoppiettanti, i plebisciti sono tornati di moda, strumenti semplici per creare/consolidare il potere del capo di turno, anche se poi spesso gli esplodono in mano, con il rischio di vedere la propria carriera politica terminare di botto (come accaduto a David Cameron nel Regno Unito) o comunque uscirne appannati in modo forse irreversibile (come Matteo Renzi dopo il 4 dicembre).
Referendum sull’unità nazionale (Scozia nel 2014), sulle riforme costituzionali (Irlanda 2015, Italia 2016), sulle politiche di austerità europee (Grecia 2015), sulla permanenza nell’Unione Europea (Regno Unito 2016) e l’elenco potrebbe continuare ma – questa è la mia tesi – la finalità delle consultazioni non è tanto quella di adottare scelte politiche specifiche, quanto quella di ottenere mandati politici ampi e generici al fine di rafforzare la leadership politica del proponente.
Prendiamo ad esempio il plebiscito sull’indipendenza della Scozia. Il quesito sottoposto agli elettori nel 2014 era:
«Should Scotland be an independent country?»
“Vuoi che la Scozia diventi una nazione indipendente?” lasciando indefinita la forma di stato (ad esempio, lo SNP è sostenitore di una monarchia costituzionale nell’ambito del Commonwealth mentre altri partiti sono repubblicani), così come cruciali questioni legate alla politica estera ed europea o all’economia. Non è un quesito dissimile da quello degli anni ’60 del XIX secolo a ben vedere. E la sua strumentalità è dimostrata anche dal fatto che – pur essendo stati i promotori nettamente sconfitti (il fronte secessionista ha prevalso solo in 4 circoscrizioni su 32 e anche in quelle di stretta misura) – questo non ha impedito di paventare nuovamente una replica del medesimo referendum nell’intero arco del 2016 salvo poi fare una brusca marcia indietro nel 2017 dopo il risultato elettorale negativo dello SNP che – evidentemente – accende e spegne la fiamma indipendentista secondo i bisogni di breve periodo del suo leader di turno.
Non diverso il caso del referendum costituzionale italiano del 2016. Un quesito unico, su questioni tra loro non necessariamente collegate (perché per abolire il CNEL dovevo necessariamente accettare l’aumento delle firme per le proposte di legge di iniziativa popolare, ad esempio?) e sul quale il premier di allora ha posto una questione di fiducia individuale al Paese. Era chiara dunque la finalità politica di rafforzare la leadership nel Partito Democratico di Matteo Renzi e di accelerarne la trasformazione in “Partito della Nazione” e la riforma costituzionale relegata da fine a mezzo.
Sono convinto quindi che in questi anni il ricorso a consultazioni di tipo plebiscitario/referendario si spieghi per due ragioni: a) creare una modalità di investitura popolare trasversale per capi politici fortemente individualisti e ideologicamente molto disinvolti, interessati a una polarizzazione polemica della propria comunità politica su temi tanto forti quanto indefiniti nei loro contorni (Italia, Scozia, Catalogna…) o b) delegare la scelta su questioni considerate troppo spinose o politicamente pericolose (per il leader) che preferisce scaricare il barile della decisione su un soggetto multiforme e indefinito come il corpo elettorale (Regno Unito e Grecia).
I “referendum autonomisti” di Lombardia e Veneto previsti nell’autunno 2017 rientrano nella prima categoria. Non si tratta di consultazioni necessarie costituzionalmente. L’art 116,3 della Costituzione afferma che “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia […] possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata.“
Che cosa significa quel terzo comma del 116? molto semplicemente che, qualora una Regione a statuto ordinario desideri ampliare la propria sfera di autonomia, lo può fare a condizione di concordare con lo Stato centrale su quali materie intende esercitare la propria autonomia e con quali risorse economiche. Tutto questo senza ricorrere a consultazioni referendarie generiche che di sicuro presentano solo i costi per il bilancio pubblico.
La strada scelta dal Veneto e dalla Lombardia è invece quella del plebiscito non necessario. Il quesito veneto è di una pochezza disarmante (e infatti, tutti i partiti lo appoggiano per paura che – entrando troppo nel merito – si possa passare per secchioni pedanti):
“Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?”
Non si dice in quali ambiti, con quali strumenti e con quali soldi. Si chiede un atto di fede.
Il quesito lombardo è un po’ più decoroso, facendo espressamente riferimento all’art. 116 terzo comma e configurandosi – nei fatti – come una autorizzazione ad aprire un negoziato con lo Stato centrale, pur tuttavia rimanendo anche questa una consultazione istituzionalmente non necessaria, ma molto mediatica.
In definitiva, Veneto e Lombardia appaiono solo come un ulteriore caso di quesiti più plebiscitari che referendari. Quesiti che non servono a valorizzare la democrazia diretta, a costruire modalità di partecipazione e progettazione politica “bottom-up“, a rafforzare società civile o corpi intermedi. Sono consultazioni calate dall’alto, elitistiche e non necessarie, finalizzate a rafforzare le leadership che le promuovono, magari fornendo loro strumenti da spendere su altri tavoli.
Marco Cucchini | Poli@archia (c)