Bisogna saper gestire le imperfezioni. Ribaltare il mantra “think global, act local”. E ricordare che “fare rumore” non basta: se il messaggio non arriva al destinatario, non metterà le radici.
mmetto di non aver mai avuto difficoltà a utilizzare termini di origine straniera nella mia vita quotidiana di professionista, facendo però attenzione a non abusarne. Troppe volte tendiamo infatti a ricorrere a parole inglesi non tanto per spiegare meglio i concetti, quanto per conferire loro una patina di ricercatezza. Pensiamo, per esempio, al termine disruption: come potremmo renderlo davvero in italiano? Si tratta solo di una “rottura” rispetto al passato di riferimento? O c’è qualcosa di più? Mi è capitato di riflettere su che cosa significa essere disruptive ripercorrendo l’intervento di Oscar Farinetti, il fondatore di Eataly, al recente meeting nazionale di Treccani, intitolato non a caso “Storie, tradizioni, eccellenze” (30 settembre-1 ottobre). Durante il suo appassionato discorso, l’imprenditore ha condiviso con la platea le 10 mosse «per essere disruptive», che valgono per qualsiasi ambito, dall’impresa alla politica, dal marketing alla comunicazione. Si tratta di un agile vademecum da applicare nella vita quotidiana che, secondo me, può rappresentare un buon punto di partenza anche per chi fa il mio mestiere.
GESTIRE LE IMPERFEZIONI. Secondo il creatore della catena all’insegna del made in Italy, la prima condizione è quella di essere pronti a gestire le imperfezioni. Puntare alla perfezione va bene, ma senza farsi frenare dal timore di produrre qualcosa che non è del tutto in linea con le nostre aspettative. Quando definiamo un piano di posizionamento strategico e di comunicazione dobbiamo certamente individuare con attenzione (e realismo) gli obiettivi che intendiamo raggiungere e i target ai quali puntiamo, senza per questo bloccarci o cambiare in fretta e furia direzione in caso di imprevisti. Al secondo punto, Farinetti suggerisce di avere ben chiare le priorità e di cercare di semplificare eventuali aspetti problematici. Una regola aurea per ogni comunicatore: gli stakeholder che intendiamo ingaggiare andrebbero infatti suddivisi in cluster tematici e valutati sulla base delle priorità del momento, da concordare anche con il top management e con i colleghi delle altre direzioni. Parlare a tutti è possibile, ma mettere in campo attività di ingaggio mirato può rappresentare il vero valore aggiunto delle nostre azioni.
PENSARE LOCALE, AGIRE GLOBALE. Un terzo passo per essere davvero disruptive, nella ricetta di Farinetti, è un ribaltamento del mantra dell’esperto di marketing Philip Kotler (“think global, act local”): pensare locale e agire globale può essere un modo di valorizzare davvero i punti di forza del contesto territoriale nel quale operiamo e dare vita ad un racconto che abbia un respiro inclusivo e un contenuto apprezzabile da pubblici diversi. “Saper narrare” è il quinto elemento indicato da Farinetti alla platea della Treccani: è vero che lo storytelling appare ormai un concetto acquisito (persino in ambito politico), ma questo non vuol dire che i nostri messaggi-chiave si “comunichino da sé”. Storytelling è, in poche parole, la possibilità di inserire tali messaggi in un racconto coinvolgente, che metta in risalto i punti di forza e le unicità di ciò che vogliamo comunicare.
Il segreto è saper selezionare, senza temere troppo le sperimentazioni, le tecniche e gli strumenti migliori che ci permettono di conseguire i nostri obiettivi
A seguire tutta una serie di consigli che l’imprenditore di Alba, autore di Ricordiamoci il futuro (edito da Feltrinelli), giudica tanti piccoli tasselli per innescare la tanto agognata disruption: il passaggio dal senso del dovere al senso del piacere, la capacità di resistere ai contesti più impegnativi, la forza di “restare giovani” e aprire la propria mente alle istanze provenienti dagli altri, il talento nel “copiare” i talenti altrui per reinterpretare i loro elementi di forza nei nostri progetti, il coraggio di saper cambiare e di percorre strade non ancora battute. Tutte indicazioni che possono essere di grande aiuto per noi comunicatori: pensiamo all’esigenza di lavorare efficacemente in team e di mettere attorno allo stesso tavolo rappresentanti di direzioni aziendali diverse, alla sfida di intercettare nuove tendenze, alla necessità di sperimentare linguaggi e strumenti per raggiungere con maggiore efficacia la nostra audience.
LA RICETTA DI FARINETTI. Farinetti parla infine di “fiducia, patriottismo e coraggio” come gli ingredienti da tenere a mente. La fiducia è l’aspetto sul quale puntiamo di più per fare in modo che la reputazione della nostra azienda o dell’istituzione che rappresentiamo si basi non solo sull’autorevolezza acquisita nel tempo o sulla performance, ma anche sulla capacità di essere considerati un soggetto credibile, coerente, con una mission ben definita. Patriottismo è, nel mondo globalizzato di oggi, la sfida di far percepire tutta la bellezza e l’unicità del contesto italiano, senza eccedere in lamentele di comodo o scadere negli stereotipi.
IL CORAGGIO PRIMA DI TUTTO. Infine il coraggio. In fondo, la disruption è soprattutto questo. Non credo si tratti solo di inseguire aprioristicamente le innovazioni e le novità del momento per apparire a tutti i costi moderni. Il vero segreto è quello di saper selezionare, senza temere troppo le sperimentazioni, le tecniche e gli strumenti migliori che ci permettono di conseguire i nostri obiettivi. Una comunicazione disruptive che “faccia rumore” e basta potrà forse darci visibilità momentanea, ma non metterà radici. Quello che conta è esprimere i nostri messaggi, farli arrivare a destinazione e convincere coloro ai quali sono indirizzati.
Autore: Gianluca Comin – Professore di Strategie di Comunicazione, Luiss Roma | Fonte: lettera43.it