Le parole dei presidenti americani dopo le stragi

Le parole dei presidenti americani dopo le stragi

La strage compiuta da Stephen Paddock a Las Vegas il 1 ottobre, in cui sono morte 58 persone e più di 500 sono rimaste ferite, è stata definita “la peggiore della storia degli Stati Uniti”. Quest’espressione è stata usata spesso negli ultimi anni (dalla strage di Orlando, in cui morirono 49 persone, sono passati solo sedici mesi) ed è molto probabile che sarà usata ancora in futuro, considerato che gli assalitori sparano quasi sempre con fucili semiautomatici e altre armi non molto diverse da quelle che si usano in guerra (Paddock ha potuto sparare più colpi e più velocemente usando un bump stock, un dispositivo che di fatto trasforma le armi semiautomatiche in fucili automatici, illegali negli Stati Uniti).

Invece di convincere la società delle dimensioni e della gravità del problema, l’etichetta della “peggiore strage” sembra avere l’effetto di spostare ogni volta un po’ più in là la soglia dell’indignazione e della tollerabilità. Lo dimostra il fatto che stragi che fino a qualche anno fa sarebbero state in home page sui principali siti d’informazione oggi passano completamente inosservate. In pochi, per esempio, hanno letto dell’uomo che tre settimane fa ha ucciso otto persone in Texas durante una festa (esistono comunque siti che registrano e pubblicano i dati di tutti gli attacchi con armi da fuoco che avvengono nel paese).

In politica la normalizzazione delle stragi ha prodotto un manuale da consultare dopo ogni attacco, un rituale codificato nei minimi dettagli, dove chiunque prenda la parola sa esattamente cosa dire e quando dirlo, fin dove spingersi e a chi rivolgersi, a seconda dello schieramento politico di cui fa parte.

Trump ha fatto più ricorso del solito alla raccolta di citazioni bibliche che viene sfoderata dopo ogni strage

All’interno di questo filone della comunicazione politica, che non esiste in nessun altro paese del mondo, i brevi discorsi dei presidenti dopo le stragi sono un genere a sé, una routine allo stesso tempo patetica – perché rivela l’impotenza dell’uomo più potente del mondo di fronte a un’epidemia che causa ogni anno la morte di migliaia di cittadini – e rivelatrice – perché leggendo tra le righe si può avere qualche indicazione su quello che l’uomo più potente del mondo è disposto a fare, ammesso che voglia farlo, per fermare l’epidemia.

In questo senso può essere utile confrontare il breve discorso fatto da Trump dopo Las Vegas con quelli di alcuni dei suoi predecessori, soprattutto con quelli di Barack Obama.

La prima cosa da sottolineare è che Trump ha fatto più ricorso del solito alla raccolta di citazioni bibliche che viene sfoderata dopo ogni strage. Il presidente ha usato sei volte la parola pregare e sette volte le parole Dio o Signore:

Le scritture ci insegnano che il Signore è vicino a quelli con il cuore spezzato, e salva quelli che hanno lo spirito distrutto. Cerchiamo conforto in queste parole, perché sappiamo che Dio vive nei cuori di quelli che soffrono.

Alcune frasi sembrano prese dal libro delle omelie di un pastore evangelico:

Preghiamo per l’arrivo del giorno in cui il male sarà cancellato e gli innocenti saranno al sicuro dall’odio e dalla paura.

L’aspetto più interessante è che in tutto il discorso Trump parla della strage (in realtà senza fare riferimenti diretti: non pronuncia mai la parola shooting) come di un evento totalmente al di fuori del controllo dell’essere umano, un avvenimento “malvagio” avvenuto senza preavviso. Se non fosse per il primo paragrafo in cui riassume i fatti, potrebbe quasi essere un discorso fatto dopo un disastro naturale:

In tempi come questi, so che cerchiamo un qualche significato nel caos, una luce nell’oscurità. Le risposte non sono facili. Ma possiamo trovare conforto nel sapere che anche la disperazione più terribile può essere illuminata da un raggio di speranza.

C’è l’idea che eventi come quelli di Las Vegas siano inspiegabili e non facciano parte della normalità della società statunitense. Un’idea che emerge anche dalla frase “non possiamo immaginare il dolore di quelle famiglie” e che Trump ha ribadito il giorno dopo la strage, quando ha definito Paddock “un pazzo e un uomo molto malato”, come a voler allontanare le sue azioni da quelle del resto degli americani.

La retorica di Trump non è molto diversa da quella di George W. Bush, un altro presidente repubblicano, che dopo la strage alla Virginia Tech (dove morirono 32 persone e che per nove anni ha avuto il titolo di “peggiore strage”) disse “è impossibile trovare un senso a un evento come questo”.

La strategia dei democratici
Bill Clinton e Barack Obama, due presidenti democratici che in campagna elettorale si erano impegnati a fare qualcosa per ridurre le morti da armi da fuoco, provavano ad affrontare il tema in modi diversi, spesso cambiando strategia di volta in volta. Per smuovere le coscienze degli americani, anche quelli più conservatori, Clinton faceva ampio ricorso alla raccolta di citazioni bibliche, ma scegliendo passaggi che potessero trasmettere la sua frustrazione. Dopo la strage alla Columbine high school di Littleton, in cui furono uccise 13 persone, nell’aprile del 1999, disse:

San Paolo diceva che ora vediamo le cose come in uno specchio, in maniera confusa. Capiamo solo in parte quello che sta succedendo.

Non arrivava ad attaccare direttamente l’industria delle armi (è in quel periodo che l’Nra, la lobby dei produttori, ha fatto passare l’idea secondo cui il diritto a possedere armi era in pericolo, e ha guadagnato buona parte del suo potere politico) né a proporre regole per ridurre la proliferazione delle armi, ma invitava gli americani a riconoscere la gravità della situazione e l’urgenza di fare qualcosa:

Forse l’America si sveglierà davanti alle dimensioni di questa sfida, se può succedere in un posto come Littleton, e prevenire che una cosa del genere succeda ancora. Dobbiamo fare di più per parlare con i nostri figli e fargli capire che rabbia e conflitto si risolvono con parole e non armi.

Obama è il presidente che ha denunciato di più la cultura delle armi negli Stati Uniti. Durante i suoi due mandati si è trovato almeno 18 volte a parlare alla nazione dopo una strage. Il più delle volte cercava di andare oltre le frasi di circostanza, pronunciava parole come “violenza causata dalle armi” e criticava il fatto stesso che il paese non volesse accettare di mettere in discussione il diritto a portare armi.

Dopo la strage alla scuola Sandy Hook a Newtown del 2012, in cui furono uccise 27 persone tra cui 20 bambini tra i 6 e i 7 anni, Obama provò a convincere la società a fare qualcosa facendo appello al senso di umanità degli americani in quanto genitori:

Abbiamo assistito a troppe di queste tragedie negli ultimi anni. Che sia una scuola a Newtown, un centro commerciale in Oregon o un cinema in Colorado, questi quartieri sono i nostri quartieri e questi bambini sono i nostri figli. Dobbiamo unirci e intraprendere azioni significative per evitare eventi simili

Con il passare degli anni i suoi discorsi diventarono più concreti e rabbiosi. Il 1 ottobre del 2015, dopo la morte di nove persone a Roseburg, in Oregon, disse:

I nostri pensieri e le nostre preghiere non sono abbastanza. Non riflettono la tristezza e il dolore e la rabbia che dovremmo sentire. E non servono a impedire che una carneficina del genere capiti in qualche altra città d’America.

Dopo ogni discorso Obama veniva attaccato dall’opposizione e dai settori più conservatori della società, che lo accusavano di voler sfruttare le stragi per cambiare le politiche sul controllo delle armi. Così dopo Roseburg si scagliò contro la routine ipocrita che si metteva in moto dopo ogni strage:

Sicuramente qualcuno dirà che Obama sta politicizzando il tema. Be’, è un tema che va politicizzato.

In un altro punto chiamava in causa il secondo emendamento della costituzione, che sancisce il diritto dei civili a possedere armi ed è alla base dell’idea di molti americani che limitare quel diritto significhi privarli della loro libertà:

Quando le strade sono insicure le ripariamo per ridurre le morti, e abbiamo le cinture di sicurezza per salvarci la vita. L’idea che la violenza causata dalle armi vada trattata in modo diverso, che la nostra libertà e la nostra costituzione impediscano di adottare anche modeste misure su come usare armi letali, non ha senso.

Verso la fine della sua presidenza era sempre più frustrato, consapevole di non essere riuscito a fare niente di significativo per ridurre le morti da arma da fuoco, anche perché il congresso controllato dai repubblicani faceva muro anche contro le misure più timide. Dopo la strage di Orlando del 2016, in cui un uomo che aveva giurato fedeltà allo Stato islamico uccise 49 persone in un night club gay, Obama fu costretto a concentrarsi sulla minaccia terroristica islamica (un pericolo che aveva sempre cercato di sminuire) e le sue critiche alla facilità con cui gli americani possono comprare fucili semiautomatici finirono in secondo piano.

Dopo ogni discorso di Obama le vendite di armi e le azioni in borsa delle aziende produttrici schizzavano alle stelle. Sotto la sua presidenza la produzione di armi è aumentata del 239 per cento e l’Nra ha raggiunto la cifra record di cinque milioni di iscritti . Non è difficile capire perché: l’Nra è consapevole che negli Stati Uniti più della metà delle persone è favorevole a regole che limitino l’acquisto e il possesso delle armi (il 51 per cento secondo il Pew Research Center), e soprattutto sa che la stragrande maggioranza degli americani (secondo alcune ricerche il 78 per cento) non possiede un’arma. Per conservare il suo potere politico e la sua presa sul congresso, l’organizzazione deve convincere i suoi iscritti e i suoi simpatizzanti che il loro diritto di possedere armi – quindi la loro libertà – è in pericolo.

Oggi alla Casa Bianca c’è qualcuno che due anni fa ha presentato la sua candidatura affermando di essere l’unico a poter ostacolare i piani di Hillary Clinton di confiscare le armi a tutti gli statunitensi, che durante la campagna elettorale si è definito un amico dell’Nra e ha detto che il suo leader, Wayne La Pierre, è un patriota. Nel 2016 l’Nra ha speso trenta milioni di dollari per sostenere la campagna elettorale di Trump, che appena entrato in carica ha ripagato l’investimento firmando un decreto che ha cancellato le limitazioni alla vendita di armi alle persone con malattie mentali (tra cui, stando alle parole del presidente, doveva esserci anche Stephen Paddock), un vincolo introdotto da Obama. Con il suo discorso del 2 ottobre, Trump ha nuovamente fatto contenta l’Nra. Ma ora, con un amico alla Casa Bianca e i repubblicani che controllano il congresso, l’organizzazione sta soffrendo: nei primi sei mesi di presidenza Trump le vendite di armi sono diminuite del 9 per cento, e sono calati anche gli iscritti e le donazioni all’Nra.

Allo stesso tempo, il fronte che fa pressioni per limitare la diffusione delle armi è sempre più ampio, organizzato e finanziato, con gruppi come Everytown for gun safety, il gruppo fondato dal miliardario ed ex sindaco di New York Michael Bloomberg, che hanno aperto sedi in tutto il paese e fanno attività di lobbying sui politici locali. Nei prossimi anni ci saranno altre stragi, altri politici che tireranno fuori il manuale del dopo strage, il presidente citerà ancora la Bibbia e denuncerà quell’inspiegabile atto di malvagità, ma lo scontro politico sul controllo delle armi andrà avanti, spostandosi sempre di più nelle città e negli stati. E la storia recente ci dice che la lobby contraria alle armi ha qualche possibilità di successo.

Del dopo strage di Newtown ricordiamo l’impotenza e le lacrime di Obama, e dimentichiamo che nel giro di pochi anni otto stati – California, New York, New Jersey, Connecticut, Oregon, Colorado, Washington e Maryland – approvarono leggi sul controllo delle armi. E oggi una parte importante degli statunitensi vive in uno stato in cui sono stati introdotti provvedimenti simili negli ultimi cinque anni.

Fonte: internazionale.it | Autore: Alessio Marchionna

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