Alla fine, questi grovigli di segni su cui il 4 marzo dovremo mettere una croce, li hanno consegnati. Li chiamiamo con nomi vari: loghi, simboli, marchi. C’è una grande confusione persino sulla nomenclatura in questo territorio paradossalmente ancora poco certo della comunicazione. Eppure i loghi ci serviranno per orizzontarci nelle schede e intanto servono ai partiti per cercare di convincerci nella campagna elettorale. E, nel frattempo, involontariamente, ci dicono anche qualcosa di sé, dei loro partiti e della campagna elettorale appena cominciata.
Qui il termine “logo” significa l’intero insieme di segni che un partito usa per identificare se stesso, ossia il “gesto” sintetico che unisce tanti tipi di segno per rappresentare unitariamente un’idea o una proposta. Dentro il logo ci sono i segni e scegliere un tipo di segno vuol dire anche scegliere il tipo di comunicazione. Ci sono alcuni loghi più concettuali, che usano i cosiddetti simboli, che sono spesso parole, segni che richiedono conoscenza della lingua e interpretazione. Il logo di “Liberi e uguali” ha una parte simbolica, cioè si affida alla coincidenza del nome proprio del partito con due parole significative di uso comune, mentre quello di “Civica popolare” non presenta alcun simbolo. In compenso “Civica popolare” cerca di utilizzare un altro segno: un’icona, l’immagine di un fiore. La forza iconica è ridotta dal fatto che non si sa bene quale sia l’oggetto di riferimento, il tipo di fiore, a cui l’oggetto si riferisca. Cosicché se la fondatrice Lorenzin non avesse aggiunto la spiegazione ironica del fiore “petaloso”, il logo sarebbe rimasto davvero vago. Icone compaiono anche come grafico di una formula nel partito “W la fisica!” e come lampadine, purtroppo spente, nel logo di Energie per l’Italia.
La maggior parte dei partiti però usa soprattutto un altro tipo di segno, gli indici, decretando anche il tono della campagna. Sono indici, infatti, i nomi propri che campeggiano su molti loghi: Salvini, Meloni, Grasso, Bonino, Berlusconi, Parisi, ecc. Chi non ha il nome proprio utilizza spesso un altro indice: la bandiera italiana, che campeggia quasi ovunque a partire da Forza Italia e dal PD per arrivare al Movimento Mamme nel Mondo o Poeti in Azione. Tra le poche eccezioni il M5S, che dal 2014 ha tolto il nome Beppe Grillo dal logo e non usa il tricolore. Le cinque stelle funzionano però a loro volta come indici dei cinque punti iniziali di riferimento del Movimento e il nome del blog ha sostituito quello del comico. Gli indici funzionano creando una relazione diretta e immediata con il proprio oggetto, a prescindere da ogni discorso e ragionamento; provocano appartenenza come i colori delle squadre di calcio. Utilizzare gli indici è sempre una scelta identitaria.
Che cosa ci dicono questi loghi della campagna elettorale? Il ritorno massiccio dell’uso degli indici è legato alla dimensione nazionale della consultazione – erano scomparsi nelle elezioni europee scorse – ma implica purtroppo anche il ritorno della politica-marketing. Non a caso stiamo assistendo a una vendita o svendita delle proposte, purché si compri il prodotto che gli indici ci mostrano. Come è sempre stato nella Seconda Repubblica, non si tratta di una battaglia di idee ma di prodotti. La nascita di nuovi movimenti in America e in Europa faceva pensare a un diverso tipo di campagna, certo non basata su schemi articolati di pensiero simbolico come nella Prima Repubblica ma meno basata su tecniche di marketing e magari più sull’emozione. E invece, per ora, si tratta di una campagna abbastanza simile a quelle precedenti.
Purtroppo, l’uso degli indici s’intreccia anche con un giudizio estetico sui loghi. Sono spesso poco pensati nei particolari, dai colori al disegno, dal lettering alla grafica. Alcuni hanno dentro altri loghi poco leggibili, altri sono elementari nel mettere un segno per tipo (titolo, disegno iconico e frase), molti usano colori scontati. L’impressione è che, forse per la tarda approvazione della legge elettorale, i partiti siano arrivati impreparati, non avendo il tempo sufficiente per lasciare che i segni crescessero, prendessero forma e forza. Peccato, perché un logo davvero sintetico, frutto del sedimentare di pensiero, storia, disegno, psicologia può essere un traino potente delle scelte elettorali. Peccato, soprattutto, che da tutto ciò emerga una concezione ancora antica della comunicazione, considerata ciò che si aggiunge alla fine delle belle idee o del bel programma per questioni di vendita. Si confonde cioè la comunicazione con l’aspetto finale del marketing. La comunicazione è parte integrante dell’idea che si vuole trasmettere, prima che delle singole persone da presentare. Deve essere anzi la sintesi del pensiero, perché capiamo davvero un pensiero solo quando lo comunichiamo. Richiede dunque tempo, professionalità e partecipazione dei comunicazionisti alla formazione del pensiero politico e non un ricorso a essi nel disperato ultimo momento. È la concezione della comunicazione che deve cambiare e non è certo l’ultima cosa che può aiutare a cambiare la politica italiana.
Fonte: ilfoglio.it